Quando smetto di protestare

La mia mente precipitosa mi fa credere che quello che accade oggi avrà certe conseguenze domani, e quali conseguenze! Con una velocità sorprendente, tale da sfuggire alla mia attenzione, si avventura in una serie di concatenazioni catastrofiche fino ad arrivare a farmi pensare che “domani” potrei organizzarmi per chiedere l’elemosina, tutto per un guasto ipotetico al motore. Ma dove vai? Aspetta, non correre alle conclusioni, aspetta, “ogni giorno ha la sua pena“, aspetta.
Poi guardo un film: parla di felicità e (ma guarda un po’!) di povertà. La povertà, questo tema mi insegue da quando ero bambina, con i racconti di mia madre (i tempi della guerra), i miei sogni di vita essenziale (è possibile vivere di niente?), l’ammirazione per Francesco, il santo, e l’esperienza nel volontariato (assistenza ai senza tetto), che ha dato un volto a questa parola.
Nei suoi confronti provo un misto di paura e di attrazione, per quello che rappresenta anche simbolicamente, da una parte fragilità, dall’altra libertà (la storia del ricco che non può entrare nel regno dei cieli).
Ebbene, le scene di quel film mi smuovono dal torpore, mi commuovo e la paura scompare.
Il giorno dopo, con mia sorpresa, scopro che qualcosa in me è cambiato nei riguardi del carico di lavoro che devo svolgere in ufficio: ho smesso di protestare. Protestare perché mi “fanno” lavorare più ore di quelle previste da contratto e ho cominciato a ringraziare, ringraziare perché mi fanno lavorare più ore di quelle previste da contratto.
Ma non è perché quelle ore mi permetteranno di pagare il meccanico che riparerà la mia macchina, non è per questo: è perché veramente non c’è niente per cui protestare, perché potrei protestare sul fatto che mi tocca lavorare per mantenere l’auto che mi permette di andare a lavorare e dire: “ma che assurdità è questa!” E invece, se rimango sul piano della protesta, non esco dall’assurdità. È solo quando smetto di protestare che trascendo l’assurdità, quando mi assumo la responsabilità delle mie scelte e ne accetto le conseguenze, quando mi rendo conto che tutto quello che arriva è un dono, anche se ci vuole un po’ prima di rendersene conto, il tempo di rivedere gli schemi mentali che si oppongono all’imprevisto.
Ogni giorno l’atteggiamento di sottofondo nell’affrontare la vita è questo: “io” voglio che le cose vadano in un certo modo e pretendo che tutto si svolga secondo quanto prestabilito, guai a uscire dagli schemi prefissati.
La mente non ama gli imprevisti. Gli imprevisti ci scardinano dalle nostre rigidità, ci scuotono dalla pretesa che tutto rimanga in ordine e perfettamente sotto controllo e ci costringono ogni volta ad adattarci agli eventi, a piegarci, dapprima in un atteggiamento di rassegnazione, poi in un atteggiamento più raffinato di accoglienza ed accettazione.

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