“Anche l’inscrizione nella coscienza è un’altra illusione”.
La puntualizzazione di Eddy al post dell’11.1 mi stimola delle riflessioni. La nostra formazione è avvenuta in vie non duali: lo zen e la Via della conoscenza. La logica e l’esperienza dell’approccio non duale è fondata sull’essere e poco si interessa del divenire, della trasformazione, del cambiamento.
In una via non duale l’obbiettivo, se di obbiettivo si può parlare, non è il cambiamento della mente, dell’identità, ma il suo superamento. Sia nello zen, con la pratica dello zazen, sia nella via della conoscenza con la pratica della disconnessione, la consapevolezza torna incessantemente al presente e non coltiva il racconto, il turbamento, l’interpretazione, il conflitto della mente/identità.
Da qui siamo partiti e qui vedo che la vita ci sta riconducendo: nel mezzo c’è stato il tentativo di trovare una maniera di conciliare l’essere con il divenire, l’esperienza che tutto è, ed è perfetto nel suo essere, e l’esperienza che deriva dall’identificazione con lo scorrere del film che la mente crea.
Questo tentativo di conciliazione è nato molto tempo fa sulla base di una spinta interiore: ci sembrava che l’affermare “tutto è quel che è”, nella sua naturalezza per noi, non rispondesse alle esigenze, alle domande che l’altro poneva; ci sembrava che quell’approccio, nella sua radicalità, non fosse adatto a tutti.
Ci sembrava, inoltre, che dovessimo avere un approccio che andasse incontro alla varietà dei sentire e delle formazioni culturali con cui venivamo in contatto: se non avessimo praticato l’accompagnamento di persone probabilmente questo problema non si sarebbe posto.
Di fronte ad una madre che perde un figlio cosa rispondi?
Spiegarsi un evento, un dolore, interpretarlo, inserirlo in una visione che abbia una sua logica, un respiro, è di notevole aiuto: quando l’emozione impazza e ci si sente vittime di una vita che ci colpisce senza un senso a noi comprensibile, potersi dare una spiegazione di questo accadere permette di affrontare la contingenza e anche di traghettare oltre.
L’interpretazione data è ovviamente relativa; può avere anche notevoli falle, ma non è questo il problema. Nei passaggi difficili della vita abbiamo bisogno di ricondurre ad un senso ciò che ci accade, abbiamo bisogno di spiegarcelo. La mente con il suo elaborato, la sua interpretazione, contiene e direziona il tumulto emotivo, il dolore.
Spiegarsi i fatti è un modo di viverli, di compenetrarli, di estrarne la natura concettuale e permette di tenere la forza dei cavalli ben relazionata alla carrozza e al cocchiere.
Non ci bastava dunque dire alle persone “è quel che è”, ci sembrava di non camminare con loro.
Il modello interpretativo che abbiamo adottato, e che deve molto all’insegnamento del Cerchio Firenze 77 e a quello del Cerchio Ifior, cerca di conciliare il vivere nell’adesso con la consapevolezza che ogni adesso costituisce un sentire: quel sentire da un lato diviene, secondo una certa logica, dall’altro è, fuori dal tempo e da qualsiasi trasformazione.
Abbiamo così incontrato un evidente paradosso: tutto è e tutto diviene. Il sentire, da un lato è e mai diviene, dall’altro è in continua trasformazione fino al grado di sentire assoluto.
E’ il paradosso della vita: se la guardi con gli occhi dei sensi, dei corpi e dei loro organi, diviene; se semplicemente stai, si può dischiudere l’esperienza dell’essere, del non tempo, del non diviso e separato, dell’unitario che tutto riassume e contiene.
Quando ci siamo addentrati dentro a questo paradosso è stato per noi anche faticoso: casa era il “tutto è quel che è”, quello ci veniva naturale ma non corrispondeva, molto spesso, alla necessità dell’altro che incontravamo. Ci è sembrato, allora, che non potessimo non elaborare l’embrione di una filosofia e di una didattica che fossero una risposta per la mente/identità, seppur parziale.
Ci sembrava che lo dovessimo all’altro, che fosse qualcosa di non eludibile in una funzione di accompagnamento.
Le volte che la vita ci ha messo nella condizione privilegiata di fare un pezzo di strada con genitori che avevano perso dei figli giovani, o con altri drammi di questa portata, abbiamo imparato che il radicalismo non sempre è una buona cosa e che a volte è importante e fondamentale il cercare di entrare nella modalità interpretativa dell’altro e da lì, pian piano, cercare di costruire degli alfabeti nuovi.
Nel tentativo di costruire questa visone filosofica e didattica, l’incontro con l’insegnamento del Cerchio Ifior è stato traumatizzante: la visione dello zen e della via della conoscenza erano, e sono, molto sofisticate; l’insegnamento del Cerchio Firenze 77 è un affresco incredibile e inusitato; l’approccio del Cerchio Ifior semplice, implacabilmente semplice, disposto alle spiegazioni più pazienti, ripetute e ripetute affinché venissero assimilate.
Non so quante volte abbiamo aperto i libri e poi richiusi dicendo “è troppo!” e poi chinata la testa, riaperti e continuato a seguire il loro filo logico, anch’esso implacabile. Volevamo imparare e avere degli argomenti per non dire soltanto “è così, è perfetto così!” ma per argomentare quel perché.
Abbiamo cercato di forgiare le parole per spiegare il paradosso dell’essere che appare come divenire, naturalmente non avevamo, ne abbiamo, la pretesa di aver concluso qualcosa di definitivo: c’abbiamo provato.
Oggi, molti piccoli e grandi segnali, ci dicono che quella fase condizionata dalla necessità di trovare una spiegazione al mistero della vita accessibile ai nostri interlocutori, sta concludendosi. Forse oggi possiamo affrontare il tempo e il non tempo, il divenire e l’essere, il duale e l’unitario, semplicemente portando il nostro piccolo essere che in sé ha integrato il paradosso, senza la pretesa di aver conseguito qualcosa di stabile e consolidato.
Forse oggi la sintesi degli inconciliabili può avvenire attraverso la testimonianza di uno stare discreto.
Questo tuo approfondimento genera in me del tumulto.
Concordo perfettamente sulla necessità di adottare un modello interpretativo del manifesto e quello proposto dal Cerchio firenze 77, nel quale mi sto da poco addentrando, reputo che sia impagabile.
Riuscire a spiegarsi ogni fatto, anche il più apparentemente assurdo o truce, da un punto di vista razionale, senza perdere di vista “il divino” genera uno stato d’animo in equilibrio tra l’accettazione di ciò che è e l’assunzione di responsabilità per le proprie azioni.
Non riesco ancora a vivere oltre questo stadio ma sto cominciando a capire che quello che c’è oltre, sebbene usare il termine oltre sia poco corretto, in fondo è un dono dell’esistenza, posso preparare il terreno, ma non posso generare il dono.
La mia frase “Anche l’inscrizione nella coscienza è un’altra illusione” riassumeva in parte questo, l’importanza e la necessità di adottare un modello interpretarivo di largo respiro, e la conclusione che, è solo un modello interpretativo funzionale alla vita ma anche a se stesso, pertanto illusorio.
Non credo di riuscire a rendere meglio l’idea a parole, perché qualunque strada di espressione cerco di imboccare mi porta al paradosso di due concetti non conciliabili ma che fusi assieme manifestano l’unità.
Un paradosso inafferrabile eppur presente, ineludibile eppur vacuo, fragile e indistruttibile, che genera commozione.
Parole talmente profonde e vere che da sole sono una carezza, un sollievo per me che in questa contraddizione essere/divenire vivo con stupore, con fatica, spesso con dolore. La contraddizione non può essere vista come un posto nel quale sostare giustificando una mia propria forma abitudinaria, questa vita mi chiede con forza manifestazione, mi chiede di essere e di divenire non come contraddizione ma proprio come integrazione armoniosa. Alzati e cammina.