Questo post, non semplice, prende le mosse da uno stimolo di Matteo relativo all’articolo del 18.1:
Allora, seguendo sempre Zenone e parafrasandolo, finché si parla di cogliere l’essere nel presente, nell’istante, nel singolo fatto, ciò è possibile. Ma se poi si vuole trovare la consistenza del divenire, dell’essere del divenire, allora questo sembrerebbe impossibile (sempre logicamente parlando). Esiste un modo, con le parole, per superare questa impasse della razionalità e spiegare più chiaramente “il divenire è l’essere”?
Le parole hanno il limite di essere uno strumento inadeguato per descrivere ciò da cui esse stesse vengono generate: sono adeguate a descrivere la realtà della mente e dei sensi, ma non la realtà del sentire. Il primo ostacolo riguarda quindi il mezzo; il secondo, l’estensore: mi sto misurando con la natura della realtà, alcuni aspetti sono acquisiti, su altri c’è ancora molto da riflettere e, soprattutto, da comprendere.
Quello che noi consideriamo come divenire non è altro che l’essere percepito dai sensi di cui disponiamo: se avessimo altri sensi percepiremmo un altro divenire, con altre coordinate spazio-temporali. Se un abitante di altri mondi si affacciasse sul nostro e avesse un’altra dotazione sensoriale, non vedrebbe niente o vedrebbe altro.
Non solo: noi parliamo sempre delle realtà che diviene così come è percepita dai sensi, ma non riusciamo a parlare di quella realtà come è percepita dal sentire. Ricordo che il tempo esiste solo nella dimensione della mente/identità. Come appare lo scorrere, e c’è lo scorrere, nel sentire?
Ricordo anche che il sentire è la risultante del corpo della coscienza, quel corpo che anima tutti gli altri corpi e li guida nelle esperienze.
In realtà ciascuno dei nostri corpi ha dei sensi, ma noi siamo avvezzi ad usare ed abilitare solo quelli del corpo fisico, emotivo e mentale. Quindi in noi c’è una tara derivante dalla nostra scarsa evoluzione: questa discussione non avrebbe senso tra coscienze che dispiegano, fluidamente e senza limitazioni, il proprio sentire.
Molte volte mi fermo a sentire/riflettere sulla natura della realtà: mi è chiara la natura dell’eterno presente, del fotogramma che in sé è immobile; mi è anche chiaro che l’animazione sorge in virtù del fatto che un sentire “sente” ciascun fotogramma in successione.
In successione logica direi: suppongo che il tempo sia una conseguenza della logica. Mi è anche sufficientemente chiaro che ogni fotogramma di materia, di emozione, di pensiero, di sentire è generato da una spinta che li precede, da una sorgente
Direi che c’è un centro che crea una molteplice realtà senza tempo; quello stesso centro sente tutta la realtà creata e, simultaneamente, la “attraversa” per mezzo della logica.
Quel centro ha in sé la vita come essere e come successione: come collegamento logico tra fatti, emozioni, pensieri, sentire, e come assenza di collegamento.
La conclusione provvisoria alla quale sono giunto è che la realtà, come essere e come divenire, non è altro che il dispiegarsi della consapevolezza di quel centro, dell’Assoluto.
Tutto il ciclo che ai nostri sensi appare come procedere dall’essere, all’esistere temporale, per poi confluire di nuovo nell’essere, mi sembra non sia altro che la manifestazione degli infiniti stati della coscienza dell’Assoluto, della natura dell’Assoluto, che è in sé sia la stasi dell’eterno presente, sia il moto della logica.
Non ho la capacità di descrivere attraverso il linguaggio quella che è solo un’intuizione, un sentire; ciò che mi sembra importante è la possibilità di potermi avventurare nell’indagine di ciò che ai miei sensi appare in divenire, sapendo, per esperienza, che ogni aspetto di quel divenire non è altro che sentire.
Il sentire, per sua natura, ha in sé i due poli: l’essere e il divenire.
Possiamo contemplare il sentire e il suo volto che si mostra nei due apparenti opposti.
Mi viene da chiudere affermando che non solo il pensiero è logico, ma anche il sentire lo è e così pure ciò che, eventualmente, lo precede.
Qui bisognerebbe analizzare la natura più profonda della logica, ma questo non sono proprio in grado di farlo.
GRAZIE di CUORE, Robi!
Il post è davvero chiaro (molto chiaro) e davvero ricco (molto ricco) di spunti che dovrò approfondire, spunti dei quali in qualche modo già ero a conoscenza ma sui quali non si finisce mai di meditare, come ben dici.
Ora forse risulterò uno che scoccia, uno che ne vuole sapere troppe e che nel suo piccolo non può con-tenere o comp-prendere tutte queste “troppe” ma vorrei fare un’altra domanda (mentre continuo a riflettere sulla precendente risposta). Una domanda sul “primo ostacolo” che si trova lungo la via del dire l’essere del divenire, una domanda sulle potenzialità della parola e dei mezzi in generale coi quali si cerca di afferare la vita come “il dispiegarsi della consapevolezza dell’Assoluto”.
Quando si parla di linguaggio e di limite del linguaggio, inevitabilmente il mio pensiero corre a Wittgenstein.
E’ vero che l’infinito (l’Assoluto) non si può descrivere con parole finite (relative), che con il linguaggio non è possibile parlare di ciò che origina il linguaggio stesso; eppure, secondo il filosofo appena citato, in qualche modo, “la proposizione MOSTRA la forma logica della realtà […] l’ESIBISCE” (Tractatus logico-philosophicus, 4.121), anche se NON la DICE poiché non la riesce a dire, poiché “ciò che può essere [solo] mostrato, non può essere detto” (ibid., 4.1212). Così, ne segue che per Wittgenstein è necessario avventarsi contro i limiti del linguaggio, perché l’urto possa MOSTRARE QUALCOSA.
Mi chiedevo, quindi, se fosse utile e fosse possibile creare in un certo senso un nuovo linguaggio (o forse una nuova metafisica, addirittura, con un “linguaggio-un-poco-oltre-il-linguaggio”) che, raccogliendo i residui dell’urto della parola coi suoi limiti, potesse MOSTRARE un QUADRO un po’ più completo (quanto pur sempre e comunque incompleto) dell'”estensore” in questione… O, invece, se fosse preferibile rimanere in silenzio riguardo a ciò ed impiegare la parola, il linguaggio ordinario coi suoi limiti, come nella maggior parte dei casi abbiamo sempre fatto.
Ma non so se mi sono spiegato in maniera comprensibile; perciò se non mi darai una risposta (oppure me la darai, dicendomi che sto dicendo cose banali o cose assurde), prometto che non ne avrò a male.
GRAZIE di nuovo di CUORE per la risposta piena di spunti! Un abbraccio.