Dati come esistenti questi postulati:
– consapevolezza della propria ignoranza
– consapevolezza dell’aleatorietà del proprio essere persona/identità
– consapevolezza della dimensione soggettiva della realtà
riuscire a prendersi sul serio nell’ampio caleidoscopio delle manifestazioni, interiori ed esteriori, è un’avventura.
Difficile prendere sul serio noi, difficile prenderci gli altri sapendo che appaiono alla nostra percezione in un certo modo non perché così sono, ma perché il nostro sentire e i nostri sensi così li estraggono dall’eterno presente.
Se la pantomima che tu porti sul mio palcoscenico non è frutto della tua volontà ma è creata da me, a mio uso e consumo, cosa posso dire di te?
E se il sentire di coscienza che ho conseguito estrae determinate scene piuttosto che altre, quale responsabilità ne porto?
Sono colpevole perché ho un sentire limitato?
A partire da questa percezione di sé sorge l’accoglienza e l’accettazione e da esse, nel tempo, germoglia la compassione.
L’accoglienza non conduce alla deresponsabilizzazione. E’ vero che se ho un sentire limitato non posso che dare luogo a determinate scene; è vero anche che ogni scena è un’esperienza per il sentire e costruisce un tassello nel processo di ampliamento dello stesso.
Imparo anche se non voglio, anche se sono ottuso: le esperienze ampliano comunque il sentire, nel “tempo”.
Da questa consapevolezza deriva quella che chiamerei una “responsabilità leggera”: non è possibile non essere responsabili delle scene che produciamo ma, dati i presupposto sopra citati, quella responsabilità è relativa al sentire acquisito, quindi non assoluta, non greve, non lacerante.
Ad ogni causa corrisponde un effetto; da ogni scena viene generata una scena conseguente; ogni sentire dà luogo ad un sentire più ampio.
Ecco perché si può parlare di responsabilità leggera.
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