Ora che stiamo diventando grandi anagraficamente, sempre più spesso capita che qualcuno che abbiamo conosciuto muoia. Questo evento rappresenta sempre un momento di riflessione interiore per noi e per coloro che vi partecipano.
La cosa che ci colpisce è il bisogno di interiorità, di risposte, di comprensione che affiora nelle persone; un bisogno che evidentemente c’è sempre ma, nella routine del quotidiano, viene soffocato da altre priorità ed anche dalla decisione, più o meno consapevole dei singoli, di non volersi fermare più di tanto a riflettere sul senso del vivere.
Il morire di qualcuno vicino rappresenta, spesso, l’unica occasione in cui non ci si può sottrarre alle domande di fondo: in quel passaggio le persone divengono più umane.
Perché più aperte all’imponderabile.
Viviamo come se potessimo modellare il nostro tempo e le sue situazioni: in realtà, siamo trasportati dal flusso degli eventi in una direzione che la nostra identità ignora completamente.
Inconsapevoli che il film ha un regista, ci comportiamo come un attore dimentico che è sul set.
Ignorando che il regista è il nucleo interiore che genera tutta la rappresentazione, non coltiviamo, tutti i giorni, l’unico fattore in grado di condurre a rivelazione le nostre esistenze: la fiducia.
Se non avessimo fiducia non ci alzeremmo, ogni mattina, dal letto né, la sera, andremmo a dormire;
se non avessimo fiducia non costruiremmo rapporti, non faremmo figli, non coltiveremmo speranze.
Non costruiremmo casa se pensassimo che il terremoto la può abbattere; non andremmo al lavoro se pensassimo che il treno può deragliare.
Nei fatti, ad ogni respiro, noi ci affidiamo. Tutta la nostra vita non è che un affidarci.
Quando stiamo per trapassare, le resistenze si attenuano e scivoliamo in un abbandono: conoscevamo solo la vita incarnata ma, alla fine, ci apriamo ad una possibilità altra, ad una speranza, ad un vuoto.
Viviamo nella fiducia e non lo sappiamo. Non solo: se qualcuno c’è lo ricorda protestiamo e lo neghiamo perché ci sembra che l’abbandono sia una rinuncia all’affermazione di sé.
Non sappiamo che c’è realizzazione solo nell’abbandono, che l’umano splende solo quando, attraverso la propria umanità, scorre l’infinito essere della vita.
Questo infinito essere può fluire solo se non c’è opposizione, o presunzione, o paura: quel flusso rende l’umano pienamente umano e pienamente dimentico della propria umanità.
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