Francesca dice: “Ho molta ammirazione e gratitudine per chi sa regalare la visione del proprio cadere per quello che è, uno dei fatti che ci fanno quel che siamo, senza bisogno di camuffare o giustificare”.
“Il nostro cadere testimonia ciò che siamo”. Meglio, direi che il nostro cadere testimonia ciò che dobbiamo imparare: in tutti i momenti della nostra vita si mostrano i termini e i contorni del nostro apprendistato, il nostro compito in officina.
E’ importante, dal mio punto di vista, superare l’affermazione: “Sono così” per sostituirla con: “Sto imparando questo”.
Tutto ciò che pensiamo, proviamo, agiamo parla del nostro tentativo di portare a manifestazione il sentire e della necessità di questo di specchiarsi nella realtà prodotta, per vedersi e valutare il risultato; la coscienza guida tutti i processi procedendo per tentativi ed errori.
Non essendo certa delle comprensioni conseguite, fa continue prove finché il risultato non è lo stesso per più volte.
Il “ciò che siamo” è relativo alla coscienza e definisce quello che è stato compreso in modo definitivo; nell’identità ci confrontiamo con “ciò che dobbiamo comprendere”: l’identità è il veicolo, lo specchio, su cui viene proiettata l’intenzione che è in fase di apprendimento.
Quello che noi siamo, come sentire acquisito, non emerge se non per piccoli aspetti: ciò che si mostra e il cantiere aperto, quello che ancora non siamo.
Quello che è stato conseguito, compreso, fa da piattaforma a quello che è da comprendere: dell’attore davanti allo specchio noi osserviamo la sua performance, non il pavimento su cui appoggia.
Tutti noi mostriamo ciò che non siamo, questa è la radice vera della compassione. Nella coscienza siamo qualcosa di molto più vasto di ciò che mostriamo nell’officina della vita.
Va notato che nel sentire, nella vita della coscienza, noi non esistiamo più come individui con contorni definiti come nel mondo dell’identità: la coscienza funziona per inclusione, unificazione, non per differenza, separazione.
A livello della coscienza è improprio dire “io sono”, è più corretto affermare: “l’essere è”.
“Ciò che si mostra è quel che ancora non siamo”. Mostriamo di noi e vediamo degli altri il manifestarsi di un punto presente nel divenire dell’essere. Trovo questa immagine dell’identità come cantiere aperto dell’apprendimento così pacificante da potersi mostrare con spontaneità per quel che non si è ancora e lasciarsi intuire per quel che si è; guardare agli altri con la sacralità del loro essere ulteriori rispetto all’apparire e non giudicare quel che appare. Una profonda leggerezza mi respira, una tenerezza urgente per sé e ogni essere.