Il diritto di chiedere. Silvano

Silvano (nome di fantasia) oggi è un uomo libero. È un amico. Ci siamo conosciuti negli ultimi anni della sua detenzione, grazie a lui si sono aperte le porte blindate che separano il mondo carcerario da quello “di fuori” rendendo possibile avvicinarsi ad un concentrato di umanità che ha il potere istantaneo di livellare, come direbbe Totò, di riportare all’essenza comune. Silvano da piccolo voleva fare il poliziotto, ma quando lo ha detto a suo papà ha preso le botte, perché il papà stava dall’altra parte, quella dei briganti.
Da ragazzo, dice, era una “testa calda”, ma io faccio fatica a immaginarlo perché quando l’ho incontrato aveva già fatto pace con se stesso, non del tutto certo, ma più della maggior parte delle persone che conosco. Se gli chiedi perché è stato in prigione risponde vago, non per schivare, ma perché non ha più importanza, e anche per delicatezza verso se stesso, forse. L’unica cosa che ha sempre tenuto a precisare è che, fisicamente, non ha mai fatto male a nessuno.
La vita che lo ha portato in carcere ha preso qualche contorno nella mia immaginazione attraverso frasi brevi e distillate nel tempo, come questa: “Ho cambiato talmente tanti nomi che ogni tanto avevo il dubbio di quale fosse la mia vera identità” (chissà se ha mai usato quello che ho inventato per lui in questo post). A un certo punto Silvano stava scontando l’ultima parte della pena, quella fase delicatissima che reintroduce nella comunità di fuori e rimette anche in contatto con quel che, fuori, hai lasciato prima di entrare. E’ una fase nella quale assapori una libertà relativa, con strumenti traballanti. I vincoli istituzionali che ancora sussistono sono protettivi, ma a Silvano stavano stretti, ed è scappato all’estero. Lì, una vita nuova, un lavoro onesto, l’ennesima identità in prestito…
Ma la latitanza si paga con gli interessi e quando lo hanno preso Silvano deve aver capito che non esistevano scorciatoie. Forse è in quel momento che ha riconosciuto la necessità di vivere gli eventi che gli si presentavano fino in fondo, di trasformarli in opportunità di comprensione. Quando è stato trasferito in un carcere italiano ha chiesto di poter praticare Yoga e ho avuto il privilegio di affiancarlo in questo cammino, per alcuni anni. Ora Silvano è nuovamente nella fase delicata del reinserimento nel mondo, ormai da uomo completamente libero.
I suoi strumenti sono più solidi della volta precedente (meglio così, vista anche la durezza della congiuntura economica); manteniamo un legame saldo ma estremamente rispettoso delle distanze, nella consapevolezza che è cruciale il suo costruire da solo. Circa un mese fa però mi ha chiesto un piccolo aiuto economico e lì mi sono detta: “Siamo salvi” perché questo significa, per una persona come lui, riconoscere il diritto, il fatto, di essere pari, fuori da qualsiasi ruolo. Concedersi di chiedere aiuto da parte di chi è stato cresciuto alla scuola dei soldi facili e rapidi, di chi è stato immerso in un contesto dove i segni di “debolezza” si pagano con il marchio dell’infamia e con l’isolamento dal gruppo  è un gesto gigantesco, carico di significati e di comprensioni e di mutamenti interiori, è un gesto di fronte al quale mi inchino.

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elena

Grazie Francesca, silvano in fondo è anche il mio nome. La vita ha ricami diversi su tessuti uguali. Adeguarsi ai modelli familiari, cercare il proprio nome, cercare la propria strada, fuggire, mettersi alla prova, farsi accettare, accettarsi, stare, resistere, abbandonarsi…quante cose abbiamo in comune.

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