Ieri sono partite le ultime rondini. Giovani involtai tardi del cui destino non saprei dire, mi sembra tardi e credo che lo stormo sia già partito.
Le prime erano arrivate gli ultimi giorni di marzo e, trovando i nidi già pronti dalla stagione precedente, si erano subito messi in faccenda.
Per tutta la primavera e l’estate ho sentito le loro chiacchiere proprio sotto il pavimento della camera dove dormo: guardando tra mattone e mattone si potevano vedere i loro traffici.
Il pavimento è sconnesso, i contadini che abitavano la casa prima di noi, facevano in questa stanza la “salata”, le carni del maiale: il sale ha mangiato i mattoni che hanno perso consistenza insieme alla malta che li legava; fessure di un dito aprono sul mondo sottostante.
Qualche anno fa, un tardo pomeriggio alla fine di agosto, ho visto sulla costa uno stormo di molte miglia di rondini: certamente si stavano preparando per il viaggio di ritorno. Migliaia di esseri che coprivano il cielo e lo riempivano delle loro grida, rinserrandosi, riconoscendosi, sentendosi corpo unico e come tale andavano ad affrontare il mare e il continente africano, fino ai quartieri di svernamento.
Qual’è casa loro? Quella dove nascono o quella dove crescono? Non saprei, non credo che le rondini si pongano il problema.
Ora, domani forse, pulirò la stanza dall’abbondanza di escrementi che la copre, chiuderò il finestrotto dal quale andavano e venivano, sapendo che all’inizio della primavera loro saranno lì e gireranno attorno a casa finché non aprirò.
Da cosa è governato tutto questo? Sicuramente da leggi precise iscritte nell’essere delle rondini.
Non riesco a vedere il particolare più di tanto: andando avanti vengo colpito dall’insieme, più che dal particolare.
L’insieme mi sorprende come amore, come canto dell’amore: mi sembra che tutto ciò che si manifesta non parli, non narri, che questo.
Il mio essere, il tuo, le rondini, l’autunno che si affaccia, mi parlano di questo come in un sussurro.
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