Uscire

Carcere di Bollate, un venerdì qualunque.
In attesa della lezione entro nella cella-biblioteca del primo reparto.
Mi siedo a terra e mi appoggio al muro. Ho l’influenza.
Sono venuta spinta dall’idea di salutare e andarmene, ma ho appena capito che non ce n’è ragione, faremo lezione normalmente.
Due detenuti che non conosco parlano tra di loro, mi accorgo che lo fanno a mio beneficio.
Il cerchio si amplia e mi include, domando, ascolto.
Entrambi vogliono raccontare l’esperienza del primo impatto con l’esterno, con l’aria e gli spazi ampi.
Uno dei due è appena rientrato dal primo permesso. E’ uscito ed è andato a casa dopo otto anni di reclusione.
Si è sentito male nel bar dal quale ha chiamato la moglie perché lo venisse a prendere, mi dice: “Se n’è accorto anche il barista, avevo le vertigini, stavo per cadere, che sensazione pazzesca”.
L’altro racconta la stessa esperienza, vissuta nell’ambito del carcere quando per la prima volta ha raggiunto il maneggio per occuparsi dei cavalli (Bollate è un carcere con un maneggio e dei cavalli, sui quali quando è possibile montano al passo i bambini, figli dei detenuti, nella recinzione estiva delle visite).
Dice: “Sono uscito e ad ogni passo mi sembrava di rimpicciolire, ero piccolissimo, schiacciato, stavo così male, è durata tre o quattro giorni”.
Ci salutiamo, il pomeriggio prosegue con la lezione, i saluti, le complicazioni burocratiche per l’acquisto di tappetini, il trasferimento al reparto femminile, l’incontro e la lezione con le donne, l’intimità nostra, quella che è nata e cresciuta lì.
Alle 19.30 mi avvio verso l’uscita, controlli rapidi, badge con codice a barre “articolo 17”, permesso permanente di entrata e uscita.
Ho la febbre.
Nel parcheggio quasi deserto noto con la coda dell’occhio un uomo che passeggia avanti e indietro, mi dico che sta per rientrare e assapora le ultime boccate d’aria esterna, salgo in macchina e mi avvio.
All’uscita lo specchietto retrovisore mi rimanda dettagli: ai piedi dell’uomo ci sono sette borse, sono sempre le stesse, quelle sporte della spesa plastificate, forma squadrata, cerniera sopra, a quadrettini… inconfondibili. Sono quelle che portano avanti e indietro vestiti, oggetti, cibo, emozioni
Sette sono troppe per chi rientra da un permesso. E quell’uomo cammina come un orso in gabbia, con dei limiti visibili solo a lui.
Capisco: scarcerato.
Per un attimo penso: “Franci, non ti stai per mettere in un guaio?”.
Mi rispondo di no, ma tanto la macchina ha già invertito la marcia e mi trovo davanti a lui, avvisato alle 17.30 e scarcerato repentinamente per motivi di salute, senza possibilità di dirlo a nessuno fino all’uscita.
Deve curare lo stesso tumore del quale è morto il suo papà alla stessa età.
Carichiamo le borse, chiamiamo sua madre.
Quella sera mi aspettano a casa della mia per una riunione di famiglia, scopro che la sua vive a meno di trecento metri di distanza. Fatalità.
Saliamo in macchina. Ringrazio col pensiero i due detenuti che con i loro racconti mi hanno preparata almeno un po’ a questo momento così delicato.
Ci avviamo, piano.

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Alessandro

grazie..

uma

Grazie per questa testimonianza di umanità; perché ci presenti realtà estranee alle nostre giornate e così ci aiuti a uscire dal nostro guscio e ad ampliare l’orizzonte sul mondo e sull’altro che poi altro da noi non è.
Catia

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