Stiamo entrando nel ventre dell’autunno, il tappeto di foglie si ispessisce, le noci sono ormai tutte cadute e topi e scoiattoli non hanno certo patito la fame.
Si allontana l’equinozio e pian piano si avvicina il solstizio d’inverno; non credo sia un caso se l’uomo di queste latitudini ha posto la memoria dei morti ai primi di novembre, nel valico tra equinozio e solstizio: il passaggio del morire, incontro alla stagione del buio che culminerà con il natale, il seme nuovo, l’inizio della nuova luce.
Più camminiamo sul tappeto di foglie autunnali e più ci svuotiamo, più viviamo l’esperienza dell’essere vuoti, dello scomparire a sé.
Senso di una perdita, di un lutto: se siamo capaci di ascoltare l’essere dell’autunno, scopriamo come ci rende simili ad un guscio di noce vuoto sparso tra le foglie.
Presa d’atto: tutto scompare, l’impermanenza è il volto dell’esistente.
Niente paura. La quiete sorge dall’accogliere.
Buttata lì come se niente fosse, l’indicazione paterna: “Niente paura. La quiete sorge dall’accogliere”.
Un po’ come un guscio.
Grazie del regalo.