Una donna ha fatto un gesto.
Non importa quale.
In quello che ho visto, nella scena per me,
c’era un gesto che corrispondeva alla priorità di affermare sé.
Un gesto in cui l’urgenza di sé non lasciava spazio all’altro.
Un gesto di negazione non del tutto consapevole o intenzionale, forse,
come se in quell’incedere l’altro non venisse neanche in mente,
come andare avanti con un paraocchi accecante e con i cingoli ai piedi,
come camminare con le scarpe sporche in un luogo dove si è chiamati a stare scalzi.
Un gesto di divisione, di non riconoscimento, di appiattimento.
Un gesto di profonda ignoranza, in senso letterale.
E’ arrivato da dentro.
Perché quel gesto mi ha messo di fronte a me.
Mi sono vista negli innumerevoli gesti analoghi,
nelle incalcolabili volte in cui non mi sono curata
che l’affermazione di me potesse schiacciare l’altro,
mettere in difficoltà, rendere fragile, ferire, negare, nuocere.
Talmente accecata da neppure accorgermi di quel che stavo facendo.
Quella scena era inequivocabilmente per me.
Ho riconosciuto i passaggi che l’hanno preceduta,
preparando, lavorando dentro, indirizzando,
incalzando a tutti i livelli.
E allora…
C’è stato il dispiacere scoperchiato.
C’è stato il desiderio di chiedere scusa.
C’è stato l’inchino al gesto dell’altro che mi svela.
C’è… come un tempo di nuova delicatezza che si rende accessibile.
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