Ho ascoltato questo pomeriggio la prima omelia di Francesco I.
Breve, volta all’essenziale: camminare, il processo della trasformazione; edificare la comunità, la comunione d’intenti e d’azione; confessare il Cristo, l’uomo unitario, come centro della propria esistenza e ad esso ritornare incessantemente.
Ed infine: nulla di questo ha senso se non ci si confronta con la croce.
So poco della teologia della croce ma non credo sia necessario appellarsi ai sapienti: la possibilità, capacità di morire, di arrendersi, di accogliere la volontà della vita in una resa difficile certo, ma ineluttabile, necessaria.
Morire ogni giorno, morire ogni attimo, morire alla presunzione di aver compreso, morire alla propria egoità perché altro si affermi.
Nel simbolo della croce si realizza l’unità di tutto l’umano che contiene in sé l’immanente e il trascendente; l’emozione, il pensiero, l’identità, il sentire, l’essere unitario trovano rappresentazione plastica in quel simbolo.
Tutto il cammino ci porta incontro a noi stessi e lì, nell’umano, può essere vissuta l’unità, l’essere, ma perché questo accada è necessario che sia superato il senso di separazione, divisione, alienazione che l’uomo coltiva.
Se perdiamo di vista questo processo siamo perduti, se lo coltiviamo nelle nostre piccole esistenze fiorisce l’incondizionato.
Ho scelto di non seguire in diretta il conclave e di non averne immagini visive, ma di attenermi, almeno in un primo tempo, a quel che arriva indirettamente dalle persone con le quali entro in contatto, osservatori davvero eterogenei.
Mi sembra che ci siano segnali positivi molto forti, anche simbolicamente.