Dice Anna nel commento al post di Soggetto del 25.3. “Ottimo. ma quando non abbiamo il necessario per la sopravvivenza minima quotidiana?
Quando le necessità impellenti di mangiare, lavarsi, vestirsi se fa freddo non permettono dilazioni di tempo, che fare?”
Questa domanda mi inchioda e la risposta non è semplice. Potrei rispondere che la situazione sociale è drammatica, che quella mancanza delle condizioni di base è comune a molti e che quindi il problema va risolto collettivamente. Può darsi; la dimensione collettiva del problema e della soluzione c’è sicuramente, ma la questione è altra.
Il dramma sociale nel quale siamo immersi ha due volti:
-collettivo,
-personale.
Collettivo: una società intera è chiamata ad interrogarsi, a ripensarsi, a riprogettarsi.
Il vantaggio di essere grandi è di aver visto scorrere lunghi pezzi di storia: negli anni ’70, dopo il boom del dopoguerra e degli anni ’60, il paese era già profondamente malato.
Negli anni ’80 è stato spolpato – come un osso da cani famelici – da cricche di opportunisti e di ladri. Erano gli anni del “riflusso” e gli italiani sembravano attenti solo al loro particolare.
Poi mani pulite, la fine della prima repubblica, l’avvento dell’unto del signore, gli ultimi, tragici nella loro immobilità, venti anni.
Negli anni ’80 paesi come la Germania e la Francia hanno ristrutturato profondamente i loro sistemi produttivi e l’organizzazione dello stato; noi abbiamo svalutato e ci siamo indebitati senza affrontare nessuno dei problemi del nostro sistema produttivo e statuale.
Gli italiani, nella precarietà del loro sentimento nazionale, hanno preferito non vedere che stavano scaricando sui figli problemi che spettava loro risolvere.
I problemi erano già lì negli anni ’70 ed ’80 e sono ancora lì, oggi pura cancrena.
La mia generazione, quelli nati dopo la guerra, ha una responsabilità enorme: ha scaricato sui figli i propri problemi, ha fatto debiti e ha detto:” Pagateli voi!”
Abbiamo imparato qualcosa da tutto questo? Dubito. Oggi, agli occhi dei più consapevoli di noi, è evidente che stiamo esaurendo le risorse del pianeta (acqua, aria, terra, materie prime) ma il cambio di prospettiva è così difficile e lento e pieno di resistenze che il collasso del pianeta sembra una prospettiva prossima e ineluttabile.
Abbiamo una crisi del sistema italiano e una crisi del modello di sviluppo globale, molta confusione in testa, troppo egoismo nel cuore: la risultante è che sappiamo protestare, considerarci vittime, ma non generare il nuovo assumendoci le responsabilità che ci competono.
La crisi politica di questi giorni è specchio dell’interiore del paese: l’evidente è negato, la possibilità di cambiamento, che pure è a portata di mano, bloccata da visioni infantili, deliri di onnipotenza, vecchie e incancrenite propensioni all’autolesionismo e alla conservazione del marcio.
Personale: il film collettivo è solo l’elemento scenografico entro cui si sviluppa il copione personale.
La difficoltà personale non può essere “colpa” della società, non funziona così. Il mio film parla di me, insegna a me, è generato da me.
Perché oggi non ho le condizioni di base che mi garantiscono la sopravvivenza? La risposta, purtroppo, non è difficile: perché in me, nel fluire di quella rappresentazione che chiamo “io”, qualcosa è inceppato; forze, disposizioni contrastanti, confliggono e la risultante è la paralisi.
La risposta alla domanda di Anna va cercata nell’intimo dei meccanismi identitari: come i nodi di una società giungono al pettine, così i nodi di una coscienza/identità giungono al pettine e la crisi non è che sintesi rappresentativa di processi profondi che non riescono a fluire.
La crisi parla di una svolta necessaria, sempre.
La mancanza delle condizioni primarie d’esistenza dice che un modo di rapportarsi alla vita è giunto al termine, che il cambiamento non è più rinviabile: l’urgenza della sopravvivenza è urgenza di una decisione esistenziale.
Dello specifico di una crisi non so dire, bisogna che la persona guardi in sé, in genere non è complesso discernere i fattori che sono all’origine dell’impasse.
Mi era sfuggito questo post.
Leggere il passaggio a volo sulla dimensione collettiva dagli anni 60 ad oggi è stato come ricomporre un piccolo puzzle… fare memoria del recente non è facile!
Grazie, Roberto.
Sembre molto puntuale, pungente.
Come essere messi con le spalle al muro, oppure trovarsi ‘in mutande’ di fronte ad un confessore. A quel punto, nulla da aggiungere ..
Grazie.