Alessandro chiede di approfondire questa frase di Soggetto: “Ricordatelo, perché il punto centrale del nostro insegnamento diverrà molto simile a colui che dice: “Non c’è strada, non c’è mezzo, non c’è nulla, se non il silenzio della mia mente”, che non vuol dire semplicemente negare la propria mente, ma che significa sfidarla. E sfidare la propria mente non significa battagliare contro i pensieri, ma intraprendere un esercizio di cui poi vi parleremo.”
Che cosa significa sfidare la propria mente e qual è l’esercizio cui Soggetto accenna? Non risponderò secondo Soggetto ma dal nostro punto di vista.
La sfida ha due direzioni:
-aggiornare in continuazione il modello interpretativo essendo disponibili ad integrare aspetti nuovi e ad abbandonare ciò che risulta usurato;
-lasciar andare qualsiasi contenuto mentale considerandolo semplice escrezione della mente.
La mente è fatta e si alimenta del suo contenuto; la sua strutturazione e definizione può essere statica, ovvero può vivere dell’acquisito nel tentativo di consolidare l’immagine di sé e del mondo data, o può essere dinamica, in continuo aggiornamento, revisione, dubbio, critica, messa in discussione radicale.
La seconda strada rende la mente un organismo plastico, modellabile: l’identità conseguente sarà fluida, dialettica, mutevole. In questo caso utilizziamo la mente per scalzare la mente, la arricchiamo, la stimoliamo e, nel contempo, la relativizziamo perché non la consideriamo un totem attorno al quale danzare ma un impasto in divenire.
Ciò che essa afferma ha un senso ma può anche non averlo: il dubbio ci conduce e ci sostiene nell’azione di relativizzazione/scalzamento.
Tutto può essere discusso, può essere ceduto, abbandonato, per accogliere qualcosa di più sofisticato, elaborato, complesso.
A questa disposizione ne va simultaneamente associata una seconda: ogni cosa, fatto, pensiero, emozione, azione va lasciata andare, disconnessa.
Come una porta aperta tutto viene e tutto va.
La risultante di questa duplice pratica è che la mente diviene strumento interno al processo della disconnessione; da apparato di conservazione e resistenza si trasforma in accessorio a disposizione della relativizzazione totale dalla quale emerge l’unica cosa che esiste, l’essere.
chiarissimo.
il disconnettere, il lasciar andare un pensiero, aiuta lo sguardo, si fa più ampio, lucido. se lascio andare, le relazioni si arricchiscono, diventano fluide. nel lavoro questo lo vedo tanto.
il creare spazio fa una scrematura tra le cose importanti.
riesco a vedere dove posso far passare e dove quel punto è fermo e va fatto notare..
grazie.