L’espressione di sé

Prendo spunto da questi versi postati ieri da un’amica in un commento:
C’erano cose che volevo dirgli.
Ma sapevo che gli avrebbero fatto male.
Così le seppellii e lasciai che facessero male a me. (J. S. Foer)
E’ opinione comune che il non detto od espresso lavori in modo distruttivo nel nostro intimo; da questa opinione deriva l’invito ad esprimersi, al non tenere dentro ed infine ad essere spontanei.
Come sempre ciò che è necessario, o consigliabile, per alcuni è dubitabile, o inutile per altri.
Nell’intimo di una persona sorgono molte spinte: istintuali, emotive, cognitive. Sorge anche l’esperienza del sentire ma questa non è una spinta.
Le spinte hanno un’urgenza e solo con il tempo e l’esperienza si impara a mediarle.
Come avviene la mediazione? Ciò che sorge nell’emozione o nel pensiero viene illuminato da un’analisi dei fatti, della realtà accaduta o in accadere.
Quest’analisi è farlocca nella maggior parte dei casi. Perchè? Per la semplice ragione che applica il modello interpretativo della vittima.
Se sono vittima di qualcosa o di qualcuno mi autorizzo a produrre quantità industriali di rabbia e frustrazione, ma se non sono vittima? Se la vittima non esiste ma c’è soltanto qualcuno che da una situazione può imparare qualcosa?
Un’emozione che sorge nell’intimo, un pensiero, un istinto quanto subiscono un diverso trattamento se non interviene la vittima?
Naturalmente non tutto ciò che nasce dall’intimo è all’insegna della vittima, esistono ad esempio bisogni che, almeno nel loro sorgere, non hanno a che fare con essa.
Il bisogno di essere riconosciuti è tra questi: quando nasce quella spinta l’altro non centra, interviene dopo perchè, ahimè, non ci riconosce.
Il bisogno di essere riconosciuti è un passaggio ineludibile nella definizione/percezione di sé: se siamo riconosciuti possiamo iniziare ad interpretarci come esistenti, come coloro che hanno una forma ed un confine.
E’ così in assoluto? No.
Sia nel caso della vittima che in quello del riconoscimento la persona si muove all’interno della dimensione egoica, identitaria e questo è solo uno dei livelli possibili di lettura di sé e delle relazioni.
Il livello successivo da cui poter osservare la spinta di un’emozione o di un pensiero è quello del sentire.
L’identità utilizza la spinta per dividere perchè solo dividendo può trarne una definizione di sé; il sentire non divide, vede, è consapevole dell’insieme del processo, ne coglie la portata unitaria.
Il sentire vede la spinta emozionale,
sa che da esso è generata,
ne coglie la ragione ed il fine,
può gestirne il flusso soltanto osservando ciò che sorge
e così illuminare di una comprensione nuova quell’area ancora non definita delle proprie comprensioni.
Se la consapevolezza della persona è focalizzata sull’identità le spinte non possono che essere espresse prima o poi; se la consapevolezza abbraccia il sentire oltre che l’ambito dell’identità, quelle spinte sono comprese nel loro nascere e possono, molto spesso, stemperarsi e svanire senza la necessità di essere agite.
Non sempre, naturalmente, perchè ci sono casi in cui ciò che al sentire non è chiaro ha bisogno di divenire realtà per poter fornire i dati di comprensione necessari. In altre parole, anche se la consapevolezza risiede nel sentire, a volte dobbiamo agire alcune spinte altrimenti non comprendiamo.
Così le seppellii e lasciai che facessero male a me. Questo non è dunque sempre l’epilogo.

La foto è di Mirco Belacchi


 

Sottoscrivi
Notificami
guest

1 Commento
Newest
Oldest Most Voted
Inline Feedbacks
Vedi tutti commenti
alessandro

Si, chiaro.
Posso tradurlo nelle mille modalità che il dipanarsi del quotidiano mi presenta.
Ci provo.

1
0
Vuoi commentare?x