Essere cristiani è accettarsi in quanto mani di Dio nel mondo? Perchè Dio dovrebbe aver bisogno di mani?

Dal libro Confession d’un cardinal: “Vede, essere cristiani non significa soltanto credere nell’esistenza di un Dio. E non significa nemmeno credere soltanto in un Dio d’amore. Essere cristiani è accettarsi in quanto mani di Dio nel mondo. E’ mettersi a disposizione del progetto di Dio per il mondo.”
Ho estratto queste frasi dal bel libro di un anonimo cardinale scritto con Olivier Le Gendre, pubblicato in Italia da Piemme (2007) con lo stupido titolo “Orgoglio e pregiudizio in Vaticano”.
Prendo pretesto da queste frasi che rispecchiano il sentire proprio di molti cristiani, perché mi permettono di sviluppare una riflessione.
Esiste dunque Dio, ed esiste il mondo.
Il mondo è un luogo imperfetto.
Il mondo non conosce Dio.
Il “Figlio di Dio”, Gesù il Cristo, lo svela e lo rivela, lo rende presenza tangibile nell’esistenza umana: parola, gesto, conversione, contemplazione.
Il cristiano, colui-che-segue-il-Cristo-e-lo-incarna-per-come-gli-è-dato, è testimone creativo dell’amore operante di Dio.
Tutto questo mi interroga. Non posso considerarmi cristiano, non ho interesse per le rivelazioni e per le religioni che dalle rivelazioni sempre traggono linfa.
Ma mi occupo da lungo tempo di esistenza, di esistenze, di spirituale, di vita oltre la separazione e la dualità.
L’amore che, nonostante me e attraverso me, in alcune situazioni viene a trovare manifestazione, è l’amore di Dio?
Indubbiamente, direi; ma ho premesso: “Nonostante me”, cosa significa?
Quel limite che mi caratterizza, quella banalità che è la mia cifra, cosa sono? Sono riscattate dall’essere, a volte, strumento, veicolo di un gesto d’amore divino?
La mia umanità trova completezza, e forse riscatto, nel momento in cui è attraversata da qualcosa di più grande, di più ampio, di divino?
L’umano splende solo quando è il divino che accade, la-mano-di-Dio-che-opera altrimenti è solo marginalità, irrilevanza, ottusità?
Voglio sostenere una presunta grandezza dell’umano a prescindere dal divino? O voglio andare oltre la dicotomia umano/divino?
La seconda. Voglio affermare una cosa piuttosto banale: non esiste umano, non esiste divino, esiste sola la realtà.
Se la realtà non è giudicata, valutata, sezionata e divisa tra alto e basso, limite e non limite, umano e divino è solo realtà, il suo carattere unitario mai viene meno, l’umano non esiste come non esiste la mano di Dio nel tempo.
Se guardo alla realtà dell’umano e del divino come a due realtà, ho bisogno di una mediazione, di un mediatore o di una rivelazione; ma se vivo l’unità-di-ciò-che-è, di che cosa ho bisogno?
Questo ragionare non risolve però una percezione ed una interpretazione apparentemente indiscutibili: il mondo è un luogo imperfetto intriso di violenza, di non amore, di morte.
E’ così? E’ davvero il mondo un luogo di morte, o così appare all’umano, così viene percepito nella soggettività della propria visione?
Ciò che vediamo, che percepiamo è la realtà oggettiva o l’interpretazione/percezione soggettiva del reale?
Se adottassimo un altro paradigma per leggere la realtà, arriveremmo ancora alla conclusione che il mondo è un luogo di morte?
Non potremmo giungere alla conclusione che vita e morte non sono che concetti dell’umano, che tutto è ciò che è, che l’ingiustizia che ci sembra pervadere le ossa del mondo in realtà è altro?
Vi lascio con questi interrogativi.

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