Ci piace parlare, giudicare; siamo dei gradassi: “Tu sei così, non sei cosà!” Farfuglionate.
La realtà, molto semplice, è che siamo chiusi nel piccolo stazzo della nostra egoità e da quello osserviamo il mondo e abbiamo la pretesa di comprenderlo, di saperlo.
La comprensione della realtà è inversamente proporzionale al tasso di egocentrismo che ci condiziona: più siamo liberi da noi, più vediamo e viviamo il reale.
Più siamo ego-centrati, più vediamo solo il nostro ombelico e abbiamo la pretesa di sapere.
Più conosciamo, più chiniamo la testa consapevoli della nostra ignoranza.
Più è limitato il nostro sentire, più la nostra pretesa si estende sul nostro partner, sui nostri figli, sui nostri dipendenti, sui nostri datori di lavoro, sui nostri vicini di casa.
Più il sentire si amplia, più taciamo.
Il giudizio che nasce dall’ignoranza ha una sua ragione d’essere: ci definisce. Parlando dell’altro, definendolo, definiamo noi stessi.
Quando il sentire matura non abbiamo più alcuna necessità di definirci; è un bisogno, una pratica che in noi muore: non dovendo definire noi, non dobbiamo definire nessun altro, non né abbiamo l’esigenza.
Allora sorge l’esperienza della compassione: per noi, per l’altro, per tutto.
Immagine di Michelangelo Pistoletto, 1980, da http://www.letteraturatattile.it/?p=1257