Agire nel non agire

Comunità per la via della Conoscenza | Voce nell’impermanenza
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Soggetto: Ognuno di voi è qui perché – comunque – ritiene di averne fatta di strada da quando ha cominciato a risvegliarsi al cammino interiore; anche se poi vi dite che di strada ne dovete fare ancora molta. E per incontrare che cosa? Che cosa volete incontrare, facendo altra strada, o passo dopo passo, o salto dopo salto?

Un partecipante: La parte nascosta di me stesso.

Soggetto: Andando dentro te stesso attraverso la via della Conoscenza tu incontri sistematicamente un’assenza; se incontri una presenza non sei dentro la via della Conoscenza, ma dentro una qualsiasi altra strada che parla di evoluzione, cioè di un qualcosa che ti appartiene e che migliora; ma in quel caso ci sei sempre tu e c’è sempre ciò che riguarda te, e così mai incontri tutto ciò che non è tuo.

L’uomo non ama vivere una continua assenza, ma è proprio l’assenza ciò che caratterizza la via della Conoscenza, che incessantemente mostra che ciò che è presente è da perdere – e quindi è assenza – e ciò che non è presente parla in sé di assenza. Eppure voi tutti siete qui per guadagnare, per aggiungere, per mettere insieme, per coordinare e per creare nuova armonia, non accorgendovi che è il riconoscersi nell’assenza il processo sistematico della via della Conoscenza, che contro-processa il processo della vostra mente. Quando si presenta un fatto nuovo che vi sollecita, voi siete soliti interpretare quella situazione alla luce di un processo interno alla vostra mente che è rappresentato da un continuo confronto con ciò che è stato – cioè con un passato riferito a voi – e perciò con tutti gli oggetti psichici che la vostra mente ha accumulato dentro di sé, e che oggi la compongono, in quanto la vostra mente è unicamente i suoi oggetti psichici. Il passo successivo che operate nel vostro processo mentale è quello di utilizzare dei parametri già elaborati che stabiliscono se quel fatto vi riguarda, oppure se vi serve o se non vi serve. Quindi c’è un misurare e poi un applicare una propria etichetta.

Questo è il processo che mette in atto ogni mente umana, processo che nega la naturalità del vivere e che la via della Conoscenza contro-processa, riproponendo sistematicamente un deserto di assenza al bisogno di presenza che vi caratterizza e che rappresenta l’impedimento che opponete al presentarsi di altro nell’assenza. Quando pensate di appropriarvi di una presenza, la vostra mente danza di qua e di là, però quando si impone ciò che non vi appartiene, allora appare il vostro scacco, e c’è assenza. E la via della Conoscenza parla solo di ciò che non vi appartiene, da cui non può nascere appropriazione o difesa di sé o una meta evolutiva, ma solo scacco, aridità, perdita e assenza. Non c’è infatti alcuna possibilità che si presenti in voi un incanto che non parla di voi, se non di fronte a ciò che non riuscite a fare vostro perché si impone, recita la sua parte e poi muore; e difatti, tutte le volte che percorrendo una via interiore vi portate a casa qualcosa da appendere in bacheca, avete creato in voi solo un pieno di presenza.

Quindi, sia che voi sottolineiate che ci sono delle cose che non sono presenti, e che vorreste presenti, sia che sottolineiate che ci sono delle cose che vi appartengono, e che non vorreste presenti, in ogni caso state parlando di qualcosa di vostro o che potrebbe essere vostro.

Tutti gli oggetti psichici che sostanziano la vostra mente si traducono in vostre aspettative, in vostre conquiste o in vostri insuccessi – tutto vostro! – mentre è il vivere l’aridità di una continua assenza che può mostrarvi l’abitudine che avete a creare un attaccamento attraverso continue presenze. E ogni attaccamento riguarda qualcosa che ritenete vi appartenga: un figlio, un amico, un oggetto, un animale o un progetto. Quindi, tutto ciò che entra in voi come presenza, diventa poi oggetto psichico da voi elaborato ed interpretato.

Per l’uomo non è naturale vivere nella dimensione in cui tutto sorge e tutto tramonta; in cui, quindi, c’è una presenza che si traduce inesorabilmente in assenza non governabile. Eppure c’è in voi un meccanismo che si basa sul ricordo e che impedisce che questa realtà possa aprirsi dentro di voi. Attraverso il ricordo voi continuate a trascinare nel tempo ciò che è nato e poi morto, fin quando la vostra mente viene occupata in altro ed allora si crea un nuovo oggetto psichico con altrettanta ostinazione. La via della Conoscenza vi indica un diverso modo di vivere che, imponendosi, ruba spazio alle vostre strutture e non vi dà identità; anzi, vi sottrae quella presunta identità che è legata al passato. Certo, la vostra mente cerca subito di appigliarsi a quella nuova dimensione per ridarsi una nuova identità, perché la vostra brama è quella di portarvi comunque a casa qualcosa, persino uno scacco, dicendovi che anche quello è importante per il percorso evolutivo. Ma lì è già pronta una ulteriore perdita.

Quindi la via della Conoscenza vi porta ad aprirvi ad un’esperienza che mai vi riguarda ed in quell’aprirvi è in nuce la morte della vostra mente, che non avviene perché voi mettete in atto lo sforzo di lavorare su di voi, o perché cercate di capire tutti i vostri meccanismi. Stiamo parlando di morte, non di una trasformazione, e quella morte non è mai opera vostra –  mai – ed è anche la morte del vostro operare da protagonisti; è comunque sempre un tunnel da attraversare, mentre una trasformazione ad opera vostra è solo un riaggiustamento della vostra visione del mondo, quindi delle relazioni fra voi e gli altri, fra voi e il Divino o con voi stessi. Di fronte ad un fatto che si presenta come nuovo, l’uomo tenta di riadattare la propria struttura mentale, che però alla base rimane quella e subisce soltanto un accomodamento rispondente alle necessità che scaturiscono dalle nuove sollecitazioni che si presentano e che mettono in crisi il sistema d’ordine operante, perché suggeriscono a quell’uomo che c’è qualcosa da riadeguare alla nuova situazione.

Ma nel processo indotto dalla via della Conoscenza, che possiamo paragonare all’attraversamento di un tunnel, avviene nell’uomo la perdita della sua identità ad opera di altro che si impone, che non gli appartiene, e che spazza via i suoi tanti: “E mio! Mi serve! Mi è utile”. Se ci pensate, quando avete un progetto, per poterlo attuare voi ritenete importante l’impegno, lo sforzo e la volontà; ma dentro quel tunnel, che rende vana ogni volontà e finalità nell’agire, si impone solo la non-azione. In voi però non può che sorgere un equivoco nel tentare di mettere a confronto azione e non-azione, perché, secondo voi, la via interiore è sempre un darvi da fare, un rendervi responsabili di voi stessi ed un assumervi le vostre responsabilità. Ma se osservate tutte queste frasi, noterete che sottolineano solo l’importanza dell’intenzione e della volontà, cioè del vostro agire da protagonisti. Ve lo dimostra il fatto che l’identità che avete costruito all’interno di un percorso evolutivo nasce spesso dall’averci provato, dal fatto di riprovarci e dal fatto di comparare il vostro progetto con l’averci provato e con l’aver ottenuto un risultato; risultato che ritenete ancora parziale e che vi spinge a riprovarci, perché la volontà è proprio un atto che testimonia che voi ci siete e che ci siete in quella forma.

Ma nell’imporsi della non-azione, che cosa pensate di perdere?

Un partecipante: La volontà.

Soggetto: Non c’è volontà senza qualcosa che la anima e la sostiene; e perciò è l’intenzione che voi temete di perdere. Difficilmente esiste una perseveranza se non c’è un’intenzione, cioè se non c’è un’intenzionalità. E’ l’intenzionalità che dà sostanza e che anima un’azione nel suo essere determinata; mentre il non-agire implica non-intenzione. Ma senza intenzioni voi chi siete? Senza intenzioni muore anche la rilevanza del passato, perché non c’è intenzionalità se non la potete confrontare con la vostra storia e con i vostri progetti, dato che il futuro è sempre condizionato dal vostro passato fin quando la vostra mente non muore. Quindi nel non-agire entra in crisi il trascinamento del passato che operate in voi, che si porta via anche i vostri progetti ed il tanto spazio dato ad un tipo di pensiero finalizzato, elaborato, progettato e vissuto nel suo affermarsi, ma anche nel suo scacco.

Però tutto questo non può realizzarsi perché voi lo volete. Nel tunnel della non-azione pensiero e volontà vengono spazzati via e lì non può che morire il protagonismo che si esprime e si consolida attraverso la volontà, l’intenzionalità e tutto ciò che il pensiero crea in base ad essa. Ma finché è identificato con la propria mente, l’uomo può solo subire il processo che avviene in quel tunnel e riesce a viverlo solo perché si impone – a volte è proprio un flash – ma quando scompare ritorna in pieno tutto ciò che quell’uomo può interpretare attraverso la sua mente e la sofferenza per quella perdita. Questo significa che quell’individuo subisce lo scacco imposto dall’assenza, pur nel tentativo di tenere ancora a galla quel ricordo; tentativo che però rappresenta la negazione di quel processo. C’è solo da lasciare che quell’assenza agisca in lui.

Ma che cosa significa non-azione o non-volontà o non-intenzione all’interno di un vivere che nel quotidiano di ogni giorno esige che l’uomo esprima una volontà e delle intenzioni? Questa, se ci pensate, è una domanda che nasce perché voi ritenete che azione e non-azione siano opposti, e non invece vissuti l’uno dentro l’altro. Come si può fare a non agire, mentre si agisce? Ricordatevi che non si può parlare di azione nella non-azione senza introdurre la sacralità di ogni azione in cui è presente un pensiero che è stato piegato ad altro.

Dunque, agire nel non-agire o anche non-agire nell’agire. Per capirne il significato ritorniamo a parlare di azione e di volontà, cioè della presenza nell’uomo di intenzionalità e di volontà nel mettere in atto un’azione. Non stiamo parlando ancora di qualcosa che accade e che perciò non vi appartiene in quell’agire, cioè di un qualcosa che identifica un diverso modo di essere, ma di ciò che voi operate come fraintendimento e che vi fa leggere azione e non-azione come opposti. E quando l’uomo parla di opposti, sovrappone sempre alla realtà un’etichetta che lo porta fuori strada; in questo caso specifico gli fa dire: “Devo non-agire” -oppure – “Non devo più agire così: ora voglio non-agire”, ma nel fare questo mantiene vivo un pensiero che è motivato a creare, e perciò un’intenzionalità ed un protagonismo.

Ora analizziamo che cos’è l’azione dal punto di vista della via della Conoscenza e cos’è l’azione dal punto di vista mentale. Visto da voi, ogni azione rappresenta il mettere in atto un comportamento, e quindi si traduce in un agire volontario, il che introduce inevitabilmente un agente che vi fa ritenere che c’è sempre qualcuno che agisce – c’è un io che si appropria di quell’azione e che ne viene anche in parte definito – ed inoltre c’è sempre qualcos’altro verso cui si dirige l’azione; oltre a ciò c’è sempre una finalità, che non coincide necessariamente col risultato finale.

Quindi c’è una finalità e quindi c’è una intenzione e quindi c’è un pensiero sotteso, poiché nel vostro concetto di azione è sottinteso un atto volontario che parte da un pensiero. Oltre a questo, se ci pensate, quando mettete in atto un’azione che si basa su vostre intenzioni, finalità o progetti, già tenete conto che essa presenta sempre la sua dose di incertezza, perché soggetta a contro-azioni o collaborazioni altrui; tutto questo la trasforma in una scelta fatta nell’incertezza. E quando un’azione presenta incognite, voi siete soliti sottolineare la determinazione che mettete in atto per superare resistenze interne a voi, che vi parlano di incertezza o di non sicurezza sul piano del risultato, o addirittura dell’incapacità di sostenere quell’azione che si impatta con un’alterità.

Quindi per l’uomo l’affermazione “agire nel non agire” diventa incomprensibile quando lui la riferisce ad azioni da lui stesso messe in campo per ridefinire la sua identità, cioè azioni atte a rispondere ad una possibile minaccia all’identità che si è fin lì costituito. Però quella stessa affermazione l’uomo non la riferisce certo ad un’azione compiuta nella monotonia di un quotidiano, laddove tutti voi agite quasi meccanicamente negli atti che, pur necessari, ritenete privi di valore. Diverso è perciò il caso in cui un figlio, nella vita di tutti i giorni, si comporta in maniera incomprensibile; questo lo ritenete una minaccia alla vostra identità, ed allora siete pronti a dare grande importanza alle azioni che tenterete di mettere in campo per risolvere quella presunta minaccia.

Appare evidente che l’uomo ha creato dentro di sé una divisione fra le azioni che si sente quasi costretto a mettere in atto all’interno di un quotidiano ripetitivo, cioè tante piccole azioni pratiche che non si modificano granché e che non sono veicoli di sollecitazioni che poi incidono su di lui, ed invece quelle azioni che nascono da una sua intenzionalità –  che comporta volontà e scelta – a difesa oppure a mantenimento della propria identità, e cioè tutte le volte che lui la ritiene minacciata, oppure se si accorge che è zoppicante e vuole rafforzarla, oppure quando intende modificarla. Per riassumere, le azioni a cui voi tutti date importanza sono quelle atte a salvaguardare la vostra identità, o a promuoverla, o a proteggerla, o a conservarla, o ad aggiornarla. E questo può farvi capire che, introducendo nel concetto di azione un’intenzione o una determinazione, vi appare impossibile pensare che ci possa contemporaneamente essere presente un non-agire. Inoltre, secondo voi nell’azione c’è sempre un agente immedesimato in quell’azione, che lui considera sua perché va in direzione di una meta da lui perseguita.

Tutto questo vi dimostra che voi attribuite al concetto di agire nel non agire un certo significato soltanto per le azioni in cui la vostra mente si eccita, e voi vi esaltate, e non nei piccoli atti di ogni giorno che ritenete doverosi ma irrilevanti. E quindi – vi chiedete – che senso può avere introdurre l’agire nel non-agire anche in quelle cosette lì che non sono volute e pensate, ma automatiche e fatte rapidamente per togliersele di torno?

Per la via della Conoscenza agire nel non agire significa che l’uomo agisce nell’inazione quando non si sente più lui l’autore di quell’azione, e quindi scompare l’attribuzione di un agente. Accade quando l’uomo viene spinto a non puntare l’occhio su ciò che lo rende protagonista, e che pertanto lo definisce; in tal modo il protagonismo tende a ridursi, per poi svanire. E quindi, svanita in lui l’importanza data alle azioni e insieme svanito il sentirsi protagonista di quell’agire, muore l’agente come presenza ed assurge l’azione in sé. Ed allora si imporrà un’azione nell’inazione in cui si evidenzierà solo l’azione in sé e tramonterà il ruolo che l’uomo attribuisce all’agente, cioè l’importanza che voi uomini date all’azione finalizzata. Pertanto muore il concetto di agente e resta l’azione in sé, in cui l’essere umano viene agito da altro; il che sottolinea l’irrilevanza della sua volontà, l’irrilevanza della sua intenzione e l’irrilevanza della sua finalità.

L’uomo, che è alla ricerca di una maggiore armonia, continuamente tenta di connettere i pensieri, le emozioni e le azioni – che per lui sono comportamenti guidati da intenzioni, cioè pensieri – misconoscendo in tal modo il naturale flusso dei pensieri e delle emozioni, e poi si ostina a praticare un’ulteriore connessione fra presente e passato. Ma quando in lui svanisce la possibilità di creare uno stretto rapporto tra presente e passato, a quel punto perde consistenza anche il ruolo dato all’agente, ed allora l’azione si presenta spoglia delle tante componenti che le vengono soprapposte dentro la vostra struttura mentale, e quindi è solo azione in sé.

(Domande)

Un partecipante: Nella situazione di essere agiti, ho capito che alcuni meccanismi ed alcuni condizionamenti della nostra mente calano, dando la possibilità che ciò avvenga. Ma se uno è agito, spontaneamente in me sorge la domanda: “Da chi?”. Qual è il fattore esterno che agisce in lui, dato che in realtà a me sembra di aver compreso che ci sia una sorta di disconnessione da alcuni meccanismi della mente?

Soggetto: Nel tentare di definire da chi si è agiti, voi comunque vi rappresentate l’Oltre in una certa maniera. Però la via della Conoscenza, parlando di qualcosa che vi cattura e vi rende agiti, utilizza il termine “Oltre” come parola atta non creare distinzioni: un Oltre, cioè qualcosa che eccede la vostra mente, che è la vostra visione duale. La vostra mente è quello che vi definisce e che distingue fra voi e gli altri; non è da confondersi con l’intelletto, ma è una struttura che si crea nel tempo – fin da bambini – e che costituisce la vostra identità.

E perciò la via della Conoscenza vi indica che è proprio dall’azione che viene messa in atto che è possibile riconoscere l’essere agiti, e cioè l’agire nel non-agire ad opera dell’Oltre, in quanto l’essere agiti nel modo in cui abbiamo detto fa parte di un processo che non può che mettere a tacere la vostra mente per un tempo necessario. A questo punto può apparirvi chiaro che l’unico modo per capire se c’è un agire al di là di voi sta nell’osservarsi nelle conseguenze generate da quell’agire.

Ben sappiamo che chi sente per la prima volta questi discorsi rischia di fraintenderli, tanto è vero che con voi è stato fatto un tragitto prima di arrivare a proporveli: vi abbiamo portato per mano a vivere l’esperienza – non solo concettuale – di qualcosa che mette in un angolo la vostra mente, e non per condurvi chissà dove, ma semplicemente per sminuire quella vostra struttura e farvi incontrare altro da voi. Pertanto, attenzione, se un Oltre produce in voi l’esaltazione dell’essere attraversati o impossessati, dubitate! Ma se un Oltre, attraversandovi e portandovi a fare l’esperienza di essere vissuti da altro – per brevi momenti, per flash – vi porta a riconoscere il piccolo quotidiano e la sacralità di ogni gesto, allora non cercate di definire chi sia quel “chi”. Nell’Oltre non c’è mai un “chi”; il “chi” serve solo a voi per porre un agente a sostegno di ogni azione.

Un partecipante: Come faccio a riconoscere se sono agito, o se è la mia mente che me lo racconta?

Soggetto: C’è un’alta possibilità di fraintendimento nel capire se è la propria mente che si auto-suggestiona, ma questo processo di attraversamento ha delle caratteristiche intrinseche che lo rendono opposto al processo che attua la vostra mente. Questo è un processo che non sapete mai perché nasca, in quanto non esiste alcuna relazione di causa-effetto che lo possa collegare alle pratiche che vi sforzate di attuare. Pertanto non segue i dettami della vostra mente che agisce solo dietro il principio di causa ed effetto, ma sorge all’improvviso e non si sa perché, come non si sa quanto duri, poi muore senza un apparente motivo, lasciando un vuoto dentro, e mai si ripresenta secondo regole o aspettative tipiche della vostra mente. Quando sparisce, l’uomo non riesce a descrivere quello che ha sperimentato, perché rimane dentro solo come un ricordo vago, impossibile da esprimere a parole. E’ irraccontabile, eppure lascia una traccia che porta l’uomo a tentare di riprodurlo, o soltanto a cercare di capire come agevolarlo, però non si lascia catturare e produce un vuoto che rappresenta un continuo scacco per quella mente. Ma voi ormai sapete che l’uomo vive di continui fraintendimenti e quindi è possibile fraintendere anche questo processo. Non cambia nulla! Quel fraintendere vi farà incontrare nuovi scacchi.

Un partecipante: Quando siamo in quel tunnel, siamo già disconnessi?

Soggetto: Sei già disconnesso anche in questo momento, ma vivi come se tu fossi connesso, e perciò travisi in continuazione ciò che stai vivendo. Ritrovarsi in un tunnel significa percepire la propria disconnessione e, contemporaneamente, il proprio voler continuare a leggersi connesso per percepirsi coerente ed armonico nel continuo tentativo di ricreare un proprio equilibrio. Eppure, dentro quel tunnel si finisce per osservare il proprio guazzabuglio senza più la pretesa di ricomporlo in un nuovo ordine, perché si riconosce che in quel disordine c’è un ordine profondo, che non appare finché si è identificati con la propria sensazione di disordine.

Un partecipante: L’atteggiamento è quello di accettarlo?

Soggetto: Nella via della Conoscenza non si parla di accettare, ma di riconoscere, incominciando a vivere lo scacco che nasce proprio dal riconoscere di essere disconnessi. Si resta lì e si subisce lo scacco di non trovare in se stessi la soluzione – cioè la ricettina per uscirne – e non si tenta nemmeno di svicolare attraverso quelle “parole magiche” che voi spesso usate, come ad esempio “accettare”.

C’è un amore infinito da riconoscere in quell’essere inchiodati lì, in quel tunnel; un amore che non vi fornisce le risposte che assecondano le logiche della vostra mente e che non misura il vedervi soffrire, finché la vostra mente ancora impera. Questo è un amore che va ben oltre il vostro umano consolare. L’Oltre consola e provoca, indifferentemente.

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Roberto Dal Maso

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natascia

Ciò che questa lettura mi suscita è la stessa sensazione che ho quando mi trovo davanti ad un muro bianco: non ho risposte, appigli o concetti a me comprensibili. Si impone una sorta di vuoto e sorge una fiducia che non so spiegare.

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