Quando una coscienza abbandona il corpo fisico e dà luogo all’esperienza della morte, il processo più significativo che l’attende è quello di una revisione della vita appena vissuta.
Questa verrà analizzata nei suoi tanti risvolti: dalle scelte fatte al loro perché; dall’egoismo all’altruismo vissuti e praticati; dalle relazioni intessute con coloro che hanno condiviso le scene della vita, al rispetto o alla sopraffazione dimostrati o patiti.
Una volta usciti dalla grande, e spesso inconsapevole, officina del vivere, si entra nell’officina del riflettere, del divenire consapevoli, del sistemare i dati relativi al compreso e al non compreso.
Ogni limite e ogni errore di cui si diviene consapevoli, è da inscrivere come responsabilità alle comprensioni non ancora acquisite: non ad un soggetto, ma a delle comprensioni di una coscienza non ancora maturate.
Il limite è sempre limite di comprensione: una volta che una coscienza ha compreso, quel limite viene superato, non c’è identità che possa frapporsi.
Più in una vita è stata coltivata la conoscenza di sé e la consapevolezza, più il lavoro di analisi e di revisione successivo all’abbandono del corpo fisico è breve e contenuto nel tasso di dolore sperimentato. Perché?
Perché durante l’incarnazione molte cose sono già state viste, elaborate, patite.
C’è un dolore che viviamo oggi, quello per i nostri limiti ed errori che si svelano impietosi ai nostri occhi: più la consapevolezza li svela, li pone in risalto, più non riusciamo ad evitarli, a rimuoverli, a non considerarli.
Il loro imporsi a volte ci travolge e il dolore per le scelte nostre, o imposte/indotte agli altri, ci opprime: davanti a noi si dispiega nuda la realtà di quel gesto, di quella decisione, di quella forzatura, di quella paura che ha determinato quella scelta, nostra o di una persona vicina.
E’ doloroso vedere. E’ doloroso non rimuovere lo sguardo e sostenerlo su quei fatti. E’ doloroso non sottrarsi alla propria responsabilità, sapere e vedere con crudezza l’asino e la sua resistenza.
Il dolore di oggi è terapeutico:
– identifichiamo la sua origine in una non comprensione (una non fiducia, una paura, una ignoranza, una brama, un istinto non placato);
– lo integriamo, ce ne assumiamo la responsabilità, reggiamo lo sguardo su di esso;
– ci ripromettiamo di fare meglio, di tenere conto dell’esperienza e, alla prossima occasione, di non ripetere l’errore.
Questo lavoro quotidiano fondato sulla consapevolezza, sulla responsabilità, sulla capacità di non fuggire e di non rimuovere rende il lavoro di revisione continuo, l’upgrade dei dati di comprensione continuo, il flusso coscienza-identità vivido, fluido, attivato senza sosta dalla disponibilità a correggere le ottusità di comprensione.
Tutto questo alleggerisce, alla lunga, il nostro vivere, lo rende fertile e produttivo, prepara ogni giorno le comprensioni future, dispone fiduciosi ad ogni scena che viene liberi dalla paura di noi e del nostro ragliare.
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E’ questa direi ‘la via’, la bussola che permette di inoltrarci, osando, nel mare aperto: il non conosciuto.
Aggiungerei che per avere uno sguardo aperto sul continuo flusso del quotidiano occorre un atteggiamento meditativo altrimenti neanche lo vediamo.
Rimando il pensiero al post di Roberto di qualche giorno fa sulla necessità di una pratica quotidiana che spezzi ogni automatismo nel vedere, nel pensare, nell’agire.