L’ordinarietà del male

L’intervista di Bruno Vespa al figlio di Totò Riina ha sollevato molte discussioni: non entro nel merito.
Salvo Riina descrive la banale quotidianità di una persona la cui vita è intrisa di distruttività, di male.
Possiamo ammettere che quella persona, quelle persone sono come noi? Amano i loro figli e la le loro famiglie, magari sono anche premurose e sollecite, non sono dei mostri.
Hanno una visione della vita e una loro morale e tengono assieme una fede primaria e infantile con la pratica feriale dell’omicidio e del malaffare.
Non sono dei mostri, perché abbiamo così timore di vederli nella loro quotidianità?
Perché dovremmo ammettere che l’orrore che è in loro potrebbe essere anche in noi?
Anche, questa è una tesi cui a volte si ricorre, ma spiega solo un frammento della realtà.
Vedendoli, osservandoli, acquisendo informazioni e dati, forse saremmo costretti ad ammettere che la realtà è complessa, che il male non è una follia, o una degenerazione, ma un passaggio ineludibile del cammino umano, del processo di trasformazione e di ampliamento del sentire di coscienza.
Sentir parlare, veder vivere queste persone ci ricorda che il paradigma attraverso il quale ci spieghiamo la realtà, non spiega nulla: dice che ci sono i buoni ed i cattivi, dice sciocchezze.
Ascoltarli ed osservarli ci costringerebbe a vedere quelle fasi del nostro procedere esistenziale che abbiamo superato, o che dobbiamo superare; ci indurrebbe a considerare il male nel mondo alla luce di altre e più profonde spiegazioni; ci metterebbe nella condizione di rispondere a queste persone e al male che introducono in maniera differente.
Pensate al tradimento della funzione della pena: dovrebbe servire per comprendere e cambiare vita; nella pratica, molto spesso anche se non sempre, è una punizione ed una scuola di malvagità.
Vedere, ascoltare, osservare un criminale ci può portare a scoprire l’uomo e la coscienza che procedono a fatica e che inciampano senza fine: quest’ottica richiede consapevolezza, analisi, discernimento, conoscenza dell’intima natura di ogni singolo individuo e del suo procedere e un alto tasso di compassione.
Temo noi si abbia paura della compassione e di ciò che può produrre come riforma sociale: preferiamo vedere la realtà in bianco e nero e distinguere in modo elementare il bene dal male.
So che le menti nel veder associata l’esperienza della compassione a quella del crimine, si agitano: compassione non significa “ti lascio libero di delinquere”, significa provvedere la risposta necessaria a quella persona che ha comprensioni da conseguire e deve perseguirle senza nuocere al suo prossimo.


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