Dice Sandra nel commento al post Il letamaio, il monachesimo nuovo: Sono nel letamaio, ma l’odore mi sta diventando insopportabile, sto cercando così di dare una svolta alla mia vita e dell’altra parte sento tutti i condizionamenti che mi urlano che sono sciagurata, che un lavoro come il mio non si può buttare […]
Il centro della questione è la consapevolezza del condizionamento che sorge solo ad un certo punto del nostro cammino evolutivo, solo quando il processo di disidentificazione è giunto a maturità: allora vediamo l’ambiente nel quale siamo immersi, i mille sentire che lo sostengono e in noi è chiaro che quel sentire non ci appartiene, che l’abbiamo conosciuto e integrato, ma anche superato in ampiezza.
Non diciamo no alla vita normale per una questione ideologica, attenzione, qui il discernimento deve essere molto lucido: desideriamo tirarci fuori perché sentiamo che gli archetipi che governano quella normalità non sono più adatti a noi, ci zavorrano e ci impediscono di manifestare la nostra natura, ovvero ciò che a quel punto del cammino siamo divenuti nel sentire.
Fino a quando la normalità ci veste, gli archetipi da cui è governata sono i nostri e il sentire che abbiamo conseguito è affine a quello che quegli archetipi richiedono e di cui sono espressione.
Quando sentiamo che non c’è più appartenenza, allora incomincia un processo di estrazione dalla normalità, più o meno lungo, a volte repentino, dipende dalle persone e dalle loro meccaniche.
Se la scelta non è fatta con la mente su di una base ideologica, ma gemoglia dal sentire, allora il rischio connesso è irrilevante: la vita non gioca a dadi e le coscienze, che sono la sorgente di quella insofferenza e l’origine della transizione, non ci scaraventano certo in un baratro.
Ciò che occorre è il tempo e una adeguata opera di discernimento, il resto lo fa la vita che è espressione di niente altro che del nostro sentire acquisito e da acquisire.
Poi, un lavoro da noi abbandonato è un dono per una persona che quel lavoro cerca: è una follia abbandonare uno stipendio pubblico? Si, ma se siamo pronti nel sentire, quello che per altri è follia per noi è necessità esistenziale.
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Grazie Roberto..
Ci sono situazioni che ad un certo punto non sai più affrontare, in cui non riesci a rimanere nonostante la mente ripeta che sono quelle ideali, che tutti farebbero salti mortali per starci dentro. C’è qualcosa dentro di te che urla “no”, che è consapevole che rimanere significa condannarsi ad una lenta morte interiore, ad un abbruttimento, ad uno sclerotizzarsi. Io non credo che il mio processo di disidentificazione sia giunto a maturità, ma faccio sempre più fatica a vivere quei ritmi che la maggioranza di chi mi circonda considera normali, a trovarci un senso, e perfino un piacere.
Il prendere distanza diventa vitale, ma vorrei tanto imparare a vivere il distacco senza il rifiuto, senza la voglia di scappare da quelle che sono le situazioni che la vita continuamente propone, comprendendole ed accettandole fino ad assimilarle e superarle. Questione di tempo, misura relativa ma che in certi frangenti sembra scorrere molto ma molto lentamente…