Ho visto ieri sera al telegiornale le immagini di quella bambina che piange ai piedi di Papa Francesco.
Credo di aver compreso ciò che l’attraversava mentre l’aiutava ad alzarsi, in quei momenti in cui un mondo l’ha attraversato: tutto il suo passato, il suo presente e il suo futuro, tutta la sua vocazione di discepolo di Cristo erano lì.
Lì, il servo e il suo Signore erano attoniti di fronte al pianto dell’umano che cerca e invoca una soluzione, una vita, una normalità.
Lì, l’impotenza e la vocazione che contiene in sé una ribellione all’impotenza, si incontravano.
Lì veniva confermata nell’intimo suo la determinazione a non flettersi mai di fronte all’indifferenza, all’impossibilità, alla resa, ad esserci ancora sul teatro delle vite degli ultimi per dare loro voce, per essere la loro voce nel deserto delle voci.
Voce che parla dell’egoismo brutale dell’umano e che indica la via.
Ognuno ha diritto alle condizioni minime per garantirsi uno scenario dove portare a rappresentazione il proprio compreso e non compreso: le religioni si occupano della liberazione dell’umano dal limite e lo accompagnano verso la pienezza dell’esistere; quando sono costrette a divenire voce di chi non ha voce, significa che nessun altro lo sta facendo, che il mondo laico non esiste, che la politica, la cura di tutti gli esseri, è morta, se mai è nata.
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