Accettare di stare in relazione

Dice Nicoletta nel commento al post Oltre la paura, il gioco“A lui pensa la vita”. Forse la vita pensa attraverso noi? Cioè voglio dire, noi forse siamo strumenti affinché la vita possa aiutare..
Certamente, siamo strumenti. In sé non esiste una vita che governa e preordina, esistono semmai leggi che indirizzano le vite in una direzione o in un’altra.
Non c’è un Assoluto che crea le vite, semmai ci sono le vite espressione dei molti gradi del sentire assoluto.
Ciascuna vita obbedisce allo scopo per cui una coscienza l’ha generata: la vita di quel figlio, di quel partner, la vita nostra hanno un’origine, una direzione, uno scopo e un’epilogo nel sentire di coscienza inscritti.
Nessuno muore a caso e il suo modo di morire è funzionale agli apprendimenti che gli sono necessari. In alcuni casi quegli apprendimenti possono riguardare coloro che gli stanno attorno e non il soggetto stesso: è il caso, ad esempio, di un bambino che muore nei primi anni di vita.
Se ogni vita ha una sua direzione esistenziale, allora la funzione del genitore, o del partner, diviene qualcosa di molto diverso da come l’abbiamo sempre immaginata.
La sfida nostra è accettare di stare nella relazione, vivendola consapevolmente, accettando di imparare senza sosta: non di guidarla, indirizzarla, piegarla al nostro desiderio, alla nostra generosità magari condotti dal bene che ci muove.
La sfida è stare nella relazione cogliendone il portato esistenziale per tutti i soggetti coinvolti.
Nel post Imparare liberamente, Caterina evidenzia bene la necessità di un approccio radicalmente altro.
Noi siamo coloro che accompagnano e camminano assieme: nel teatro della vita dell’altro compariamo come servitori del disegno altrui.
Nel nostro teatro, l’altro serve il nostro progetto esistenziale.
Quel figlio, quel partner mi mostrano il non compreso, svelano ciò che mi riguarda e la ragione per cui vivo.
Nel loro teatro, io sono colui che svela e rivela loro il cammino che gli spetta.
Tutto questo accade sia consapevolmente che inconsapevolmente: il mio modo di essere, le mie meccaniche, i miei limiti per il semplice fatto che esistono e si mostrano all’altro, producono in lui reazioni di vario genere e ognuna di quelle reazioni induce dei cambiamenti, nel tempo.
Per il solo fatto che sono nel teatro della sua vita: tutto questo accade naturalmente e senza intenzionalità particolare.
Ciò di cui dobbiamo diffidare, a mio parere, è del nostro tentativo di aiutare: noi siamo comunque di aiuto, ma quando ci mettiamo d’intenzione nell’aiutare non è detto che sempre facciamo la cosa più opportuna.
Quante volte un figlio non va aiutato e va lasciato che la vita gli dia le sberle che magari gli fanno correggere un certa piega che ha preso?
Quante volte trattiamo il nostro partner da idiota, o da bambino?
Quante altre, se stessimo un passo indietro potremmo permettere all’altro di frasi male ma, in quel modo, anche di imparare qualcosa?
Come fai a sapere quando agire e quando astenerti? Osservando, ascoltando, dandosi tempo, sapendo che non siamo indispensabili, comprendendo i processi nel quale l’altro è immerso.
A volte dobbiamo intervenire rapidamente e sollecitamente; altre dobbiamo tacere e rinunciare ad aiutare: non c’è nessuno che possa dirci come e quando, c’è il processo di conoscenza, di consapevolezza e di comprensione che ci guida e ci orienta e, attraverso una quantità di prove e di errori, sperimentiamo la relazione, la costruiamo e la modifichiamo: la relazione è il centro e al suo centro ci stanno l’ascolto, l’osservazione, la comprensione e la compassione.


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nadia

Anche questo, un post molto toccante.
Per chi come me, fino a ieri, ha sempre vissuto nella “sfera del fare”,queste parole sono molto incoraggianti, da rileggere quotidianamente!
Grazie!

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