Nel commento al post La pace dopo il cambiamento, Sandra si preoccupa di mitigare la mia tendenza a porre l’accento sugli aspetti più scarni del cammino: fa bene. Come vedete, quasi mai sottolineo le gratificazioni della via perché, semplicemente, non ritengo che questo sia un mio compito: se siete in cammino, sapete che questo è un processo con i giorni di sole e quelli di pioggia, dove l’esperienza del sole è protetta dalla giusta riservatezza e quella della pioggia è utilizzata per discernere il cammino una volta che la si è compresa.
Se avete un po’ di esperienza di letteratura zen, vedrete che in quel contesto non ci sono orpelli, tutto è ricondotto all’essenziale e quando si può, si preferisce tacere piuttosto che mostrarsi. Una frase, una parola bastano e fotografano uno stato, una condizione e, generalmente, quella parola o quella frase sono sospese sul vuoto di emozione e di pensiero.
Se non avete compreso lo zen, vi sembrerà asettico e freddo: se lo avete compreso, avete visto l’abisso dove tutto viene azzerato e dove la realtà si mostra per quel che è.
Vedete, ora io potrei articolare questa affermazione, potrei spiegarla, usare immagini ed esempi, descriverla in modo che le vostre menti meglio capiscano, e magari comprendano, che cosa significa che la realtà si mostra per quel che è: ma non lo farò, perché coprirei con le parole qualcosa che appartiene all’esperienza del sentire.
Quell’affermazione ha un preciso corrispettivo nel sentire e nel momento in cui viene pronunciata, o scritta, lo evoca: ogni altra aggiunta è superflua, ridondante e copre la portata e la natura dell’esperienza stessa.
Esistono affermazioni e linguaggi che svelano, come ne esistono altri che velano, coprono e nascondono: la persona che risiede nell’essenziale, finisce per giungere ad una sintesi del linguaggio che lo rende evocativo e fortemente simbolico.
Chi ascolta, se ha quel sentire, comprende; se non lo ha, non comprende e si trova di fronte al proprio non comprendere.
Bene, concludendo queste considerazioni stimolate da Sandra, posso dire:
la mia preoccupazione è azzerare perché lì, dove non c’è più spazio per la consolazione, si apre l’abisso dell’esperienza dell’essere.
Sandra sottolinea l’importanza dell’esperienza della fiducia: ha ragione, è così, la fiducia ci accompagna e ci tiene per mano.
Quale fiducia? C’è un pericolo nella fiducia?
Si, ed è nella fiducia-consolazione.
No, se l’origine della fiducia non è nell’identità, ma nel sentire.
La fiducia-consolazione è il trastullo dell’identità che quando comincia a perdere oggetti si rintana nell’ultimo fortino, l’ultimo bastione: è più l’esperienza del concetto della fiducia, che la fiducia stessa, è ciò che ci raccontiamo sulla fiducia e a quel pensiero ritorniamo per sostenerci nel cammino, alimentandoci non di esperienza, ma di pensiero sull’esperienza.
Non durerà e, prima o poi, quella fiducia la perderemo e con essa il cammino che alimentava.
L’altra fiducia, è quella che non ci appartiene: non è un pensiero, non un’adesione, non una fede.
Appoggia sul vuoto di noi.
E’ una nota di fondo ascoltabile solo nel più profondo silenzio di sé.
E’ forza e capacità; istinto e determinazione; quiete e abbandono.
E’ lo scheletro che non avverti di avere ma regge i muscoli, i nervi e gli organi del corpo.
L’umano oscilla tra le due fiducie: la persona della via perde il trastullo e trova, nel deserto di sé, l’origine di ogni affidarsi.
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grazie
Sì robi, precisazione importante!