Le mancanze nostre aiutano l’altro, quelle dell’altro aiutano noi. Attraverso la privazione si mostra, si svela il nostro bisogno.
Se l’altro è scorrevole e sempre pronto, non riusciremo a capire, a sapere, a comprendere che cosa veramente ci necessita, cosa è importante e necessario e cosa no.
L’assenza, il limite, la mancanza dell’altro fanno emergere il nostra lamento, a volte il nostro grido di bisognosi e mentre questo accade abbiamo la possibilità di divenire consapevoli di quella nostra modalità e inclinazione, di lavorarla e disconnetterla.
Con il tempo la supereremo, quella modalità, passando attraverso una sequenza di no e di inadempienze dell’altro, di ferite e musi nostri, di chiusure e offese e di un ritrarci sempre più profondo.
Prima o poi la vita ci stanerà e ci dirà: “Ma non ti vedi? Ma cosa vuoi dall’altro? Vuoi che sia il tuo servo? Non lo è, è il randello sulla tua testa perché tu ti scuota dal torpore della vittima e impari a vedere l’inconsistenza dei tuoi bisogni smettendo di farti portare da essi in ogni dove!”.
Certo, c’è un limite: se le mancanze dell’altro ledono la nostra dignità, il nostro diritto ad esistere, ad essere rispettatati, è un’altra faccenda.
Molto spesso non c’è in gioco questa posta: nella coppia, nella famiglia, nella comunità lavorativa o in quella spirituale, a noi sembra che l’altro, soprattutto se è in alto nella scala gerarchica, mai ci tenga nel dovuto conto. Poveri!
A vittimismi finiti, magari dopo aver tirato le cuoia ed essere passati a miglior vita – un po’ tardi, ahimè -, comprenderemo che in realtà l’altro era proprio lì per quello, perché noi imparassimo a diventare grandi, autonomi, solidi nella nostra capacità di reggere i venti e le maree del mondo, dignitosi nella nostra capacità di gestirci, consapevoli della proposta che ogni giorno la vita ci avanza attraverso l’altro.
Feriti dalla ruvidezza e dal limite apparente, o reale, dell’altro enfatizzati dalla nostra mente, ci siamo piegati su noi stessi e abbiamo smesso di giocare.
Concludo ripetendo: deve esserci una misura. Se un rapporto è solo privazione, frustrazione e negazione non va ovviamente bene; ma non va ugualmente bene se è tutto accudimento.
Ciascuno nella propria vita ha dell’uno e dell’altro e la miscela è combinata non a caso, ma a seconda delle necessità di comprendere che le persone hanno e che realizzano grazie all’altro.
Newsletter “Il Sentiero del mese”
“…Le mancanze dell’altro ad essere rispettati…”.
Questo è ancora un mio limite, il rispetto. C’è molta identificazione e a volte, discernere tra l’impeto della mente ed il fare un passo indietro,non è semplice. La chiave di volta è come dice Catia,nella compassione. C’è consapevolezza,ci sarà comprensione.
Grazie
Grazie.
Il lavoro più duro è riconoscere la modalità su cui lavorare!
Ho sperimentato che è così; accettare e comprendere il comportamento dell’altro nei tuoi confronti, quando non è distruttivo, col tempo apre alla compassione.