Fino ad un certo punto del suo cammino esistenziale, l’umano ha bisogno di misurarsi con il fare, con la manifestazione attiva e preponderante di sé.
Da un certo punto in poi, questa propensione diminuisce e la persona diviene più riflessiva, più attenta alla sostanza e meno identificata con la produzione e la eccitazione, meno desiderosa di collocarsi sul palcoscenico della vita.
Noi ci rivolgiamo a questa seconda categoria di persone, per la prima non abbiamo risposte.
A queste persone possiamo dire: la chiave della vita è nell’ascoltare, nell’osservare, nel fare un passo indietro, nell’essere disposti ad imparare dalle relazioni, nello sviluppare compassione.
Cinque disposizioni interiore che compongono un intero itinerario esistenziale: il lettore, l’ascoltatore non attento, e ce ne sono anche nel nostro ambiente, riterrà che diverse di queste attitudini hanno connotazione sottrattiva, che sono fondate sul togliere piuttosto che sull’aggiungere e gli sembrerà che così facendo noi si coltivi un sostanziale “pessimismo esistenziale”, un togliere senza dare niente.
Non ho argomenti per controbattere a queste affermazioni: parlo a coloro che hanno visto maturare in sé la stagione dell’abbandonare.
Quando quella stagione si presenta, termini come ascoltare, osservare, fare un passo indietro, hanno per noi un fascino, un richiamo, ci indicano qualcosa che ci preme e ci urge.
Vi chiedo: quante risorse interiori, quanta intelligenza, consapevolezza, presenza, dedizione sono necessarie per ascoltare, osservare, tacere, fare un passo indietro?
Quanta vita germoglia e splende in questi gesti? Molti di noi credono che vivere sia aggiungere, fare, creare situazioni; altri hanno compreso che quella è solo la stagione dell’infanzia, che in età matura vivere è creare consapevolmente le condizioni per la relazione piena: accoglienza, disponibilità, pazienza, compassione.
Queste quattro disposizioni interiori richiedono: ascolto, osservazione, silenzio, disponibilità a farsi da parte. La forza vitale e creativa viene utilizzata e finalizzata a questi scopi, non per scaraventarsi sul palcoscenico e recitare la propria parte.
Vivere diviene allora una canalizzazione delle forze e delle disposizioni interiori tutte volte alla conoscenza, alla consapevolezza, alla comprensione.
Il facitore è tramontato e al suo posto è affiorato il contemplativo, colui che vive impregnato di consapevolezza e che manifesta tutta la sua umanità, la sua vitalità, la sua creatività per conoscere e comprendere.
Vi sembra questa una rinuncia al fare? O è un fare di ben altra natura? Un fare che non è rappresentazione, ma disposizione alla conoscenza, alla consapevolezza, alla comprensione?
Un fare che senza lo stare è niente, pura esteriorità. Un aggiungere che senza il togliere e il perdere non conosce equilibrio e profondità.
Quando vi agitate perché vi sembra che noi, nel Sentiero, togliamo tutto, forse dovreste interrogarvi sul fare che vi ammalia, sulla sua illusorietà esteriore, sul suo essere quantità priva di interiorità e di sostanza.
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Queste parole risuonano molto. Il facitore maturo, coglie aspetti diversi del quotidiano, rispetto a un tempo…ne coglie l’essenza!
Grazie Roberto
In questa serata la tua riflessione mi evoca un libro di Erich Fromm: Avere o essere. Letto a vent’anni, assieme a “L’arte di amare” dello stesso autore, è stato per me una pietra miliare nel processo di conoscenza-consapevolezza e comprensione, di “formazione” della coscienza. Mi rendo conto che in seguito non ho fatto altro che approfondire quelle intuizioni attraverso le esperienze vissute.
Dotto con un linguaggio grezzo, brutale ed arcaico, nonché angusto in quanto ricompreso in una logica utilitaristica:
(1^ Corinzi, 13.3)
“E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova.”