Cerchiamo consolazione: un luogo, un’esperienza che ci riscaldino il cuore.
Le menti cercano appigli per non sentire il rumore dell’angoscia e del non senso e, in questo tentativo, il partner, i figli, il lavoro, un libro, una partita, un viaggio sono consolazioni, luoghi della mente e del cuore dove risiedere: il pensiero, l’aspettativa, la narrazione di tutto questo e di molto altro ancora, ci permettono di tirare avanti. Letteralmente: di tirare avanti.
Qui in quest’eremo tra i campi di girasole e di grano, tra gli olivi e l’odore forte del coriandolo, se rincorressimo le consolazioni saremmo perduti.
La gioia non ha niente a che fare con la gratificazione di una consolazione, piccolo e fugace dono di un’identificazione: la gioia è come il lievito nella massa, cambia i connotati dell’esistere, non ha origine in te e non ti riguarda quando scompare.
Come il lievito, cambia la natura del pane: dopo, la realtà non sarà più la stessa, mai più.
Se ti riguardasse, la gioia, l’avresti già fatta tua, l’avresti già mangiata e resa niente: ma non è cosa tua, e non puoi nemmeno sciuparla.
Ti coglie mentre cammini, mentre stai, mentre la casa è vuota.
Non può durare a lungo; di natura molto diversa dalla piccola gratificazione della consolazione, quando ti attraversa sconquassa con la sua intensità e vastità: ciò che lascia è uno stato d’essere, lo stato d’essere.
Nel silenzio vasto dei giorni che, nella loro routine, mai si assomigliano, l’essere è la nota di fondo che li accompagna e li sostiene; la gioia è come il verso dell’usignolo nella quiete della notte; la consolazione, come le volute disegnate dal volo della zanzara: stai attento a che non si avvicini troppo.
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