Prima scena. L’altro giorno Caterina mi ha mandato un video di suo figlio adolescente mentre annaffia l’orto e canta una canzone popolare. Il ragazzo, come i suoi due fratelli, è stato educato in casa, niente scuola: la madre si è caricata sulle spalle la consapevolezza dell’inadeguatezza della scuola e ha detto: “Li crescerò tra le capre e i libri, tra l’orto e il computer, tra le storie della campagna e la città, tra l’interiore e l’esteriore, secondo i loro tempi e il loro modi”.
Seconda scena. Primi anni ’70, con un amico accompagniamo al porto di Venezia una ragazza tedesca nostra coetanea, conosciuta sul treno durante il viaggio che dalla Germania ci portava in Italia. La ragazza, ventenne, andava in Israele a vivere in un kibbuz.
Terza scena. Mia nipote, Tatiana, insegna all’Istituto agrario di Pesaro frequentato in prevalenza da ragazzi dell’entroterra figli di agricoltori. Ragazzi che durante le vacanze invernali ed estive lavorano in azienda, accudiscono le vacche, guidano i trattori. Ragazzi che, quando nevica molto, pensano al tetto della stalla se reggerà.
Tre esperienze di vita integrale, dove molteplici piani si intersecano e determinano una formazione ampia ed unitaria.
Quarta scena. A 19 anni un giovane affronta un test per entrare alla facoltà di medicina: il test vuole verificare le sue capacità logico matematiche, la sua cultura scientifica e generale. Non si preoccupa, il test, di verificare se il giovane ha l’attitudine al prendersi cura, all’accompagnare, al rispondere alla domanda esistenziale dell’altro che si fa malattia: questo non compete al test, né al decennio di formazione successiva che il giovane dovrà affrontare prima di finire in una corsia d’ospedale.
Potrei fare molti altri esempi di questo tenore, ma eviterò perché la tesi che voglio sostenere oramai è chiara: la formazione di una persona, a tutte le età, deve tenere conto dei molteplici aspetti di una personalità. Dell’esercizio delle attitudini pratiche, della conoscenza ed espressione della sfera emotiva, dello sviluppo del pensiero concreto ed astratto e del suo pieno dispiegarsi, della conoscenza, consapevolezza ed espressione della sfera esistenziale e spirituale.
Affinché questa formazione possa avvenire, le persone debbono avere tempo, luoghi adatti alle esperienze, condizioni sociali che le favoriscano.
Sembra, oggi, che l’unica preoccupazione di noi adulti sia avviare il prima possibile i nostri figli al lavoro: fai le superiori, vai a lavorare; fai le superiori, l’università e vai a lavorare.
Certo, in un tempo in cui il lavoro non c’è, un genitore è in ansia e gli rimane difficile immaginare qualcos’altro.
È di questo immaginare altro che voglio parlare: davvero il lavoro coatto è l’orizzonte unico per i nostri figli?
Davvero dobbiamo condannarli alla vita che troppi di noi vivono, vita da prigionieri tra le pareti di casa e quelle della fabbrica/ufficio/città?
Questo è il grande dono che riserviamo loro, una vita da subalterni tra tempi governati da altri e condizionamenti che non lasciano alcun libero arbitrio e alcuna creatività da esprimere?
Dal mio punto di vista, questo è dare pietre ad un figlio che chiede pane.
Ma, se il genitore non ha compreso cos’è il pane della vita, come fa a non dare pietre al proprio figlio?
A chi spetta allora offrire il pane se non a coloro che hanno del pane compresa la natura?
Chi sono costoro? I tanti che stanno aprendo gli occhi sulla realtà, che sono mossi da buone ed altruistiche intenzioni, che non si lasciano accecare dalla rabbia e della frustrazione e si rimboccano le maniche. Per fare cosa?
Per dare tempo e possibilità alle persone: tempo di conoscersi, di capire come si funziona interiormente, quello che si vuole, quello che si è capaci di sostenere, di portare, di condividere con il mondo.
Possibilità di sperimentarsi, di collaborare, di crescere insieme, di misurarsi con i problemi, con i limiti propri e altrui senza essere stritolati nella morsa del giudizio e della valutazione, senza essere misurati e pesati ad ogni respiro.
Il kibbuz, la comunità, il cooperative learning, il volontariato: persone che hanno tempo e possibilità – perché la società cui appartengono glieli concede – e che possono spostarsi ai vari angoli del pianeta, sperimentare se stessi, crescere nella relazione in ambienti adatti e a quello votati, sostenuti dalla coscienza comune, dal sacrificio condiviso che a quello destina risorse sottraendole all’inutile, decidendo deliberatamente di dare meno energie al capitale e di più alla comunione e alla condivisione di intenti e di processi.
Se la vita non è questo avere tempo e possibilità, che cos’è? Il lavoro e i tempi coatti, il mettere al mondo figli con un destino da prigionieri?
Il vivere stordendosi ed impedendosi di divenire consapevoli dell’assurdo che abbiamo collaborato a creare e che ogni giorno sosteniamo nella nostra ignoranza e inconsapevolezza?
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Un esempio: http://www.repubblica.it/economia/2016/06/28/news/agricoltura_sociale_oltre_3000_aziende_nel_nuovo_welfare-142991537/?ref=HRLV-6
C’è tanto su cui riflettere,grazie
Restringo un po’ il discorso, ma partendo da ciò che c’è oggi nel sociale “non alternativo”, la svolta verrebbe da una università esperienziale. Una volta superato uno o due esami, incominci a lavorare part-time usando quelle conoscenze. Fai esperienza reale e guadagni qualcosa da subito. Puoi finanziarti la formazione per gradi, e magari lo fa un’azienda per te.
In questo modo, anche le conoscenze logiche successive si strutturano sulla base dell’esperito, e si apprendono molto ma molto meglio. Hai la possibilità di fermarti a uno stop intermedio. Non c’è fretta di arrivare al livello top. Altro può far parte della formazione, ad esempio corsi sulla relazione e il sentire. La laurea diventa una formazione continua, più liquida e variegata, più adattabile a delle tendenze e ai destini.
Un po’ all’estero ci sono arrivati spingendo gli stage, ma ci vuole di più. La “certificazione” finale è ancora forte. Anche la laurea breve è un primo passo, ma il concetto da abbandonare è che serva una certificazione esterna oltre al CV personale, ciò che sei, e ciò che hai fatto per mostrarlo.
Più che condivisibile.
La vita è un cantiere, un’officina: attualmente il processo è troppo imbalsamato e non coglie il contributo che ogni soggettività può portare.
Un esempio: nelle università americane puoi insegnare anche senza i titoli accademici, se hai qualcosa che serve all’istituto e agli studenti per crescere.
E’ così che circola l’innovazione, l’approccio che rompe le regole e ne stabilisce altre.
Ma è necessario mettere in discussione la base della selezione, i criteri della selezione stessa e creare opportunità per tutti i livelli che il soggetto è man mano in grado di dispiegare, come tu giustamente dici.
Ma una società così fatta non deve essere ossessionata, ed ossessionare, dal tempo e dalla produttività: il tempo e l’essere della persona sono il centro, non la remuneratività del capitale investito.
Certo, non possiamo aspettare la fine del sistema capitalista, dobbiamo dare spazio all’imprenditoria sociale e no profit e fare di questa il filone che pian piano diverrà centrale garantendo così al maggior numero di persone possibile la chance di un inter esistenziale più umano.