La prima volta

Poi venne chiamato lui, con il suo nome in ebraico – Mi-che-leh ben Avrahom – e con le gambe tremanti salì sul pulpito. Portò le frange del tallis a sfiorare la Torah e le baciò, poi fissò le lettere in ebraico sulla pergamena ingiallita. Sembravano muoversi come serpenti sotto i suoi occhi.
“Borchu!” sibilò uno degli anziani accanto a lui.
Una vocetta tremante che non poteva essere la sua intonò la benedizione.
“Borchu es adonoi hamvoroch. Borchu..”
“Bor-uch.” Gli anziani proferirono la correzione tutti insieme. Il coro brusco delle loro voci gli schiaffeggiò la faccia come un asciugamano bagnato. Alzò gli occhi confuso e vide lo sguardo disperato di suo padre. Ricominciò da capo la seconda frase.
“Bor-uch adonoi hamvoroch l’olom voed. Boruch ahtoh adonoi, elohainu melech hoalom.” Con un filo di voce finì la brocha, avanzò a testa bassa attraverso la lettura della Torah e le successive benedizioni, e cominciò l’haftorah. Per cinque minuti continuò a tremare, mentre la sua voce sottile risuonava nel silenzio. Sapeva che la congregazione tratteneva il fiato, convinta che da un momento all’altro si sarebbe perso senza speranza nella complessità del testo ebraico o dell’antico canto. Ma come un torero ferito la cui ferrea disciplina impedisce di lasciarsi andare all’oblio sotto le corna del toro, si rifiutò di soccombere. La sua voce si fece più sicura. Le sue ginocchia cessarono di tremare. Cantò e cantò, e la congregazione sedeva ad ascoltare, forse addirittura delusa per la mancata occasione di divertimento.
Presto si dimenticò perfino del cerchio di anziani barbuti intorno a lui, e del vasto pubblico di amici e parenti che riempiva la sinagoga. Catturato dalla melodia e dalla possente bellezza di quelle antiche parole, dondolava avanti e indietro al ritmo del proprio canto. Verso la fine si sentì immensamente felice, e fu con un vago senso di rimpianto che tenne l’ultima nota il più a lungo possibile.

Noah Gordon, L’uomo che cercava la verità, Rizzoli, pag. 82.


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