Di fronte al rito dei rigori, ieri sera durante Italia-Germania, ho visto il non senso.
La legge della competizione vuole che qualcuno vinca e, siccome è legge partorita in una visione ristretta, vince chi fa più goal.
E’ la stessa ristrettezza di visione cui facevo riferimento qualche giorno fa in merito all’istituto del referendum: si o no; un goal in più di te, uno in meno a me.
“Fammi le cose semplici sennò mi confondo”, questo sembra il mantra dominante, o forse è solo il risultato di non comprensioni molto vaste e di una mancanza di alternative impossibili perché nemmeno si riesce ad immaginarle.
Dentro lo schema competitivo qualcuno deve vincere e questo sarà finché l’archetipo della competizione non schiatterà, e non schiatterà se non quando non sarà più rifornito di adesione da parte di coloro che lo sostengono ed alimentano.
Ma c’è un’alternativa alla competizione? Perché se non si configura un’altra possibilità quell’archetipo dominerà la scena fino alla fine del tempo.
Se, nel valutare una partita, non contassero solo il numero dei goal?
Se contasse anche la qualità del gioco, la generosità dei giocatori, la loro capacità di collaborare, di fare squadra, di servirsi vicendevolmente, di rispettarsi, di costruire situazioni virtuose, originali, creative fondate sul genio personale come su quello collettivo?
Se il risultato di una partita non fosse determinato dal barbaro metodo del chi ha fatto più goal, ma tenesse in conto i fattori su indicati e magari tanti altri, la votazione/valutazione di questo sistema di fattori potrebbe essere compito degli spettatori dello stadio, o di quelli a casa, o di entrambi, non mancano di certo le tecnologie per farlo.
Se usciamo dalla barbarie della competizione tradizionalmente intesa, quante sfumature di conoscenza, di consapevolezza e di comprensione si aprono ai nostri occhi?
Davvero non possiamo immaginare il nuovo e dobbiamo rimanere prigionieri del niente solo perché lo conosciamo?
Pensate ai metodi di valutazione nella scuola; ai metodi di selezione e di abilitazione nei concorsi di tutti i tipi: ai miei occhi sono orrori di banalità e di superficialità, pura negazione e spreco dei talenti dei singoli e delle comunità.
Non dobbiamo inventare granché, molto è stato già fatto, in campo pedagogico, ad esempio: già fatto negli anni settanta e poi ampiamente dimenticato tanto che coloro che insegnano e valutano secondo criteri altri, sembrano oggi degli alieni nel panorama monocorde della miseria della nostra scuola.
Non faremo un passo se non tireremo giù il totem della competizione e se non usciremo dalla logica meritocratica comunemente intesa:
– ogni persona merita un posto nella società;
– ogni persona deve essere messa nella condizione di trovare per sé una collocazione adeguata alle proprie possibilità ed ai propri talenti;
– la società si cura di individuare i metodi di conoscenza, di discernimento e di collocamento più efficaci per permettere a ciascuno di trovare il proprio posto e la scena più adatta alla propria personale rappresentazione.
Se potete, leggete i commenti a questo post, contengono ulteriori elementi di riflessione..
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Non bisogna confondere la competizione con l’istinto di rivalsa. Nello sport più puro, due o più persone si confrontano e si rispettano, si ammirano reciprocamente e profondamente per la prestazione che stanno impersonalmente incarnando, scomparsi a sé stessi in una azione atletica che va oltre le loro piccole possibilità. Questo è espressione di unità. Ricordi quando Bartali passo a Coppi la borraccia? Se la rivalità è un gioco, il confronto è espressione di unità.
Anche la collaborazione nei suoi aspetti manifesti ha bisogno di più soggetti. Si potrebbe perfino dire che la competizione unitaria è una forma di collaborazione. Nella espressione manifesta, infatti, non esiste la collaborazione “flat” dove tutti sono uguali. Per forza di cose, occorre un leader al servizio del gruppo che faccia circolare le informazioni unitariamente da un punto di vista privilegiato in quanto ad ampiezza. Ogni struttura biologica e non necessita di questo assetto. Non tutte le cellule possono essere cuore o cervello.
Questo leader emerge col confronto, implicito o esplicito, fra qualità che definisce i ruoli nel gioco della collaborazione.
Nella pratica della relazione è senz’altro come dici, nel sentire la relazione, le funzioni di ciascuno, la dominanza del sentire copre tutto con il velo della compassione.
L’ottica della compassione è tale per cui al centro non viene collocato il fare e la sua produttività, ma il procedere esistenziale di ciascuno.
Direi che questa è la porta maestra del gioco.
Grazie!
Capisco perfettamente, un po’ di questo disagio lo conosco bene.
Ma la soluzione per il decimo ragazzino che magari preferisce costruir capanne invece che tirar calci al pallone non è un mondo in cui nessuno gioca più a pallone. E’ un mondo ove entrambe le cose hanno la medesima dignità di esistere, dove non c’è una reale dicotomia fra collaborativi e competitivi, e dove ogni cosa è gioco.
E’ giusto dare l’informazione al ragazzino affinché non si senta inferiore. Tuttavia non è pensabile ritagliare la realtà, che è quella che è in ogni momento, sulle sue esigenze. Che i competitivi siano di più è un fatto, e con la giusta informazione questo deve essere accettato, proprio affinché le cose possano equilibrarsi, venendo a mancare grazie alla comprensione la necessità di completare un’esperienza.
Analogamente io sono un cinestesico a palla e sono spesso a disagio in un mondo di iper-visivi con cui faccio fatica a comunicare, ma tramite questo imparo, e giunto a comprensione non ci sarà più dicotomia fra visivi e cinestesici, nella MIA percezione. Questa è l’opportunità di apprendere per me oggi.
Nella mia piccola esperienza, là dove si identifica una cosa migliore generalizzabile in assoluto, là dove si vuole superare, e non integrare in modo più armonico, qualcosa che esiste nel bene e nel male, nella sofferenza e nella dignità, là di solito indago se vi è ancora un tema da risolvere ove ci si sente ancora vittima. Il mondo può cambiare, ma vedo che cambia solo quando smetto di sentirmi vittima; altrimenti, qualcosa aspetta la mia comprensione e sta fermo, a ripropormi la medesima sofferenza.
L’orizzonte è certamente quello del gioco, indipendentemente dalla vocazione personale di ciascuno.
C’è da tenere conto di questo, e qui non va più usata la metafora dei ragazzini che ci porta fuori strada:
la competizione ha bisogno di più soggetti operanti.
L’ottica dalla quale compio la mia analisi, contempla il superamento del soggetto:
nella esperienza del sentire, quando questo tiene saldamente in pugno la rappresentazione a partire dalle comprensioni conseguite – comprensioni che relativizzano il ruolo del soggetto – l’esperienza di vita diviene unitaria e non più fondata sulla contrapposizione, o sulla divisione.
Nel mondo delle identità la competizione ha un senso ed è un abile strumento per conseguire determinate comprensioni utili alla coscienza stessa;
nel mondo della coscienza e del sentire prevale l’unità, la collaborazione, il procedere insieme.
Ad un certo punto del cammino evolutivo interiore, la competizione viene abbandonata perché non più conforme al sentire acquisito.
Ha un senso per altri, e dunque è legittima, ma non ha più senso per noi.
Questo vale per la competizione ma, ad esempio, vale anche per il sesso: ad un certo punto la necessità di esperire a quel livello viene meno.
Avrai sicuramente ragione. Probabilmente non arrivo a valutare l’assetto che prefiguri.
Per il momento mi limito ad osservare che, se ci sono 10 ragazzini in un campo da calcetto con un pallone, probabilmente questi si mettono subito, per divertirsi di più, a fare una partita piuttosto che fare passaggi fra loro.
Non so se la metafora regge. Forse farebbero a passaggi se trovassero in questo uno scopo sostitutivo a quello del primeggiare? Forse.
Non è questo il problema, Max.
Dei dieci ragazzini probabilmente ce n’è uno che non gioca, non gli interessa.
Nove hanno bisogno di misurarsi con il competere, uno, forse, no.
Gli archetipi esistenti coprono l’esigenza dei nove, come quella dell’uno.
Ma sono archetipi differenti.
C’è una parte dell’umanità che ha bisogno di competere, largamente maggioritaria e ce n’è una parte, largamente minoritaria, che ha necessità di coltivare altro perché il sentire conseguito a quello la porta.
Ora, in un ambiente a misura dei competitivi, i collaborativi hanno la necessità di riconoscere consapevolmente la loro disposizione altrimenti pensano di essere sbagliati e stanno nella frustrazione.
In loro, non negli altri, deve schiattare l’archetipo della competizione e devono rendersi conto che ad altro sono votati.
Ora, un archetipo viene superato quando le comprensioni sono mature ma c’è un fase, un interregno, in cui il sentire può anche essere pronto ma l’identità ritarda ad adattarsi: ecco perché uso il termine “schiattare”.
Un altro esempio: quante persone si sentono chiamate ad una vita più silenziosa e discreta, ma la loro famiglia, il loro ambiente sono attivi e chiassosi: queste persone soffrono, pensano di essere sbagliate, si sentono tagliate fuori. Tutto questo accade perché non hanno un paradigma che gli spieghi chi e come sono.
Possono restare in quel guado e in quel disagio anche per una vita pensando che il modo giusto sia quello degli altri, per il semplice fatto che sono la grande maggioranza.
C’è una persona che ci segue e ci legge, sa di cosa sto parlando..
“In questa epoca, evidentemente il tema è accettare le sconfitte. Se non temi le sconfitte, fine della competizione, rimane il gioco. Il problema non è la lotta, la questione è se la partita la fai sul serio, o se la fai per gioco, o se ti ritiri portando via il pallone, ferito da chi faceva troppo sul serio. E’ solo un tema esistenziale fra i tanti.”
Condivido pienamente.
Credo che l’archetipo della competizione ci sarà fino a quando esisteranno persone con la necessità di apprendere competendo.
Convivono archetipi di diversa natura funzionali a persone di diverso sentire:
tutti siamo passati e passeremo attraverso l’archetipo della competizione ma, anche, tutti lo lasceremo per aderire ad un archetipo più avanzato.
Immagino che finché ci sarà storia, ci sarà competizione, ma ci sarà anche chi la supera.
Tutto questo è naturale. L’innaturale sorge laddove qualcuno ha superato quell’archetipo e per mancanza di coraggio, di visione, di capacità interpretativa non vivifica, per sé e per quelli come sé, l’archetipo successivo e più evoluto.
Questa passività, che è subalternità, conduce alla predominanza del vecchio anche quando questo nell’intimo di quelle persone è morto.
A titolo di esempio, guarda la crisi di tanti cattolici con il loro paradigma: vedo da una vita gente in mezzo al guado cui manca il coraggio di rompere per costruire altro.
Però, è evidente che questo discorso è relativo: se non si staccano è perché non hanno ancora conseguito le comprensioni necessarie; allo stesso modo se qualcuno ha superato il paradigma competitivo ma non da ancora vita al nuovo, è perché le sue comprensioni in merito non sono ancora mature, quindi, in effetti, quel paradigma non l’ha ancora superato e quindi non ha accesso ad altro.
Con l’open source per me sfondi una porta aperta :-).
Anch’io comprendo bene ciò che dici, non sto dicendo che la competizione sia la strada maestra per l’umano. Ma l’accesso all’accogliere l’altro per ciò che è e goderne, non preclude il piacere di qualche utile sfida. E’ solo che ora la cosa è esasperata, è diventata una questione di adattamento esistenziale. Ma non trovo che sia necessario eliminarla per accedere al nuovo. In generale io non credo che si entri in un paradigma abbandonando del tutto un altro: il nuovo può solo costruire riprospettando, ma non distruggendo, il vecchio. Sarebbe come dire che l’esperienza pregressa non è servita.
La competizione è utile ove occorra a) mantenere alta l’efficienza fisica in preparazione a qualche evento avverso (per esempio, giochi in estate per rimanere pronti all’inverno), b) filtrare ciò che è rilevante, ed eventualmente c) decidere a chi toccherà la prossima leadership (termine organizzativo, non necessariamente il comando) basandosi su dati misurabili.
Anche nei vari movimenti in rete, benché tutti possano sopravvivere su qualche host e nessuno “muoia di fame”, vi è tuttavia un meccanismo competitivo che seleziona i progetti migliori. Il brutto è proprio che quelli “peggiori” hanno poche occasioni di confrontarsi e imparare ad essere migliori. Anziché la sconfitta, l’indifferenza: terribile. Spendi il tuo tempo, magari collabori, ma nessuno ti segue e non sai perché. Devi essere smart a posizionarti. Magari il tuo gruppetto ha una soluzione tecnica eccellente ma non la sai comunicare, ergo sei misurato sulla comunicazione anziché sulla bontà tecnica.
Quindi per quanto la collaborazione sia l’anima di questi progetti, è la competizione (magari su blog di recensioni) che li rende comparabili e che permette a ciascuno di trovare il valore per sé.
Si potrebbe dire che gli algoritmi di ricerca siano più equilibrati e non suscettibili alla comunicazione. Ma vedi, anche l’emergere lì, ad esempio col tuo blog, dipende da contenuti ben focalizzati e di nicchia, che danno ranking elevato su alcune parole chiave, e da un buon SEO. Il SEO altro non è che una buona tattica competitiva per emergere “contro” altri blog, e per fornire contenuti rilevanti al fruitore… la collaborazione è essa stessa fattore competitivo…
E’ come dire che occorre riconoscere l’alto livello di collaborazione degli ecosistemi invece di vedere solo la legge della giungla. Però, per quanto ci sia molto altro, il darwinismo non è infondato del tutto. Ha un senso, limitato ma continua ad averlo anche estendendo il paradigma.
Insomma, certamente la competizione è eccessiva nella nostra società. Ma va di pari passo con la necessità di continuare a filtrare ciò che è rilevante e con la necessità di confrontarsi sui risultati, per capire se si sta andando nella direzione desiderata oppure no.
In questa epoca, evidentemente il tema è accettare le sconfitte. Se non temi le sconfitte, fine della competizione, rimane il gioco. Il problema non è la lotta, la questione è se la partita la fai sul serio, o se la fai per gioco, o se ti ritiri portando via il pallone, ferito da chi faceva troppo sul serio. E’ solo un tema esistenziale fra i tanti.
Un fatto mi ha colpito ieri sera durante la partita: i giocatori si conoscevano tutti, alcuni giocano anche nelle stesse squadre di club.
Mi ha colpito l’amicizia, un senso di fraternità mi è sembrato esserci..
La partita è un gioco, anche duro, ma un gioco: poi c’è la vita e là ci riconosciamo come persone, non come giocatori.
Questo ci dice qualcosa di molto importante: la competizione è solo uno dei livelli possibili.
Probabilmente è necessario e non può essere superato completamente perché l’umano ha bisogno di confrontarsi anche in quel modo, ma non può rimanere prigioniero di quel modo.
Questa è la questione, come l’egoismo è l’avvio del cammino umano, così lo è la competizione: entrambi lasceranno il passo alla donazione e alla collaborazione.
Questo nella storia evolutiva dei singoli e in quella delle società.
A me interessa porre l’accento su ciò che verrà, sulla potenzialità che si apre in noi quando il nostro sentire evolve: cambiando nell’intimo dobbiamo darci altri obbiettivi ed essere capaci di abbandonare il vecchio che andava bene quando il nostro sentire era un altro.
Mi viene in mente il complesso di algoritmi che usano i motori di ricerca per indicizzare i contenuti del web: quello è un modo complesso di guardare ad un mondo complesso.
Certo, non è un modo perfetto ma esce dalla primarietà della prova muscolare: un piccolo sito come il nostro esce, in diverse ricerche, tra le prime posizioni di una pagina di ricerche.
Quanti sono i modi di mettere alla prova un ragazzo senza porlo in competizione diretta, e quanti i modi di valutare il suo cammino che tengano in conto la complessità del suo essere e procedere?
Non sono d’accordo, Roberto.
Lo sport si fonda sulla competizione come principio educativo, e non ha nulla a che fare con la competizione “esistenziale”. Nella competizione ciascuno si confronta con l’eccellenza della comprensione atletica e tattica altrui, che lo ha battuto, per cogliere nuovi punti di evoluzione nello sport specifico e, per generalizzazione, nella vita. E anche quando la vittoria avviene come per una lotteria (una volta era una monetina, non i rigori, a decidere!) c’è comunque la lezione del saper accettare la sconfitta, la più grande e importante di tutte.
Il vero peccato ieri è che la sconfitta non ha potuto rendere ancor più virale lo spirito d’unione che pare abbia attraversato la nostra Nazionale. E che si sia rafforzato l’orgoglio infantile dei tedeschi. Essendo usciti ai quarti, come dice Barzagli, a nessuno rimarranno impressi più di tanto l’impresa e il valore aggiunto ottenuto dallo spirito di squadra di una nazionale che non aveva centrocampisti e nonostante tutto ci ha creduto dall’inizio alla fine, facendo due miracoli e mezzo e non accampando scuse.
La vittoria più grande per noi italiani è stata quella di non giustificarsi con le assenze di Candreva, De Rossi, Motta, Marchisio e compagnia cantante, ma trovare soluzioni e rispetto con soluzioni originali come Parolo regista e abnegazione come Sturaro che gioca mezza partita con una distrazione al ginocchio (e nessuno lo sottolinea). I “vecchietti” hanno corso più di tutti e hanno dato una lezione di spirito ai Balotelli & co.
Con gli ennesimi errori arbitrali (di minor impatto, comunque), stiamo smaltendo del karma. Ci danno a priori dei tuffatori, degli imbroglioni, ergo fischiano più a noi. Il giallo a Giaccherini è emblematico, soprattutto dopo la simulazione tedesca di poco prima sanzionata con una punizione in zona pericolosa. Andare avanti, l’arbitro vedrà il suo errore da solo. Non perdere concentrazione prendendo scuse. Costruirsi reputazione.
Se andassimo invece a valutare la qualità col televoto, il tutto si ridurrebbe a un partigianesimo. Molta ma molta più maturità sarebbe necessaria per non farne una farsa. I tedeschi che sono 20 milioni più di noi e decisamente meno obiettivi, vincerebbero sempre.
E poi, in fondo, la realtà cruda è la migliore insegnante. Poco conta se le menti si agiteranno un po’ su chi ha sbagliato il rigore e chi no, qualcosa si è mosso. C’è stato un autentico imprinting per una diversa identità di italiani. Italiani tutt’altro che renitenti, italiani dediti che non mollano l’obiettivo fino alla fine. Il popolino questo linguaggio lo può comprendere.
Si, interessanti osservazioni. Certamente condivisibili.
Rimango dell’idea che la competizione sia una disposizione che l’umanità supererà.
Guarda il mondo dell’open source: è fondato sulla collaborazione e sulla condivisione.
Guarda l’intima soddisfazione dopo aver fatto delle cose assieme, nella valorizzazione delle qualità specifiche di ciascuno.
Credo di capire ciò che dici sulla formazione del temperamento, della volontà, delle capacità ma penso che la persona del futuro lo farà in un modo differente.
Quello attuale è un modo profondamente duale, dicotomico.
Se è vero che la “razza” che va popolando il pianeta, non muove dalla mente ma dal sentire, allora il sentire tende a superare la competizione per affermare la collaborazione.
Dovremo sviluppare pedagogie, didattiche e prassi che permettano, nell’universo relazionale della condivisione, la possibilità di far emergere appieno i talenti personali.
E’ un discorso questo che ha molte implicazioni, una di queste è la logica delle iniziazioni, delle prove, dei gradini da salire: non credo che questo potrà o dovrà essere superato, ma credo che possa svilupparsi in modi molto più sofisticati.
Ho nella mente la prassi delle scuole steineriane, un altro mondo.
Rimprovero a questo tempo l’approccio troppo duale: c’è un mondo molto vasto oltre questa visione così elementare..