Il cammino di liberazione è, ad un certo punto, essenzialmente un processo di de-condizionamento.
Da influenze esterne, sociali, culturali? Interne, derivanti dall’educazione e dalla formazione? Non direi.
Nessuno ci obbliga ad aderire a degli archetipi, se vi aderiamo è perché corrispondono al nostro sentire. Certo, dato un certo sentire, possiamo scegliere se aderire all’archetipo A o B e magari aderiamo ad A perché i nostri colleghi, o i nostri amici vi aderiscono e quindi c’è un condizionamento, ma è marginale.
La realtà è che avendo un sentire di un certo grado, potevamo accedere solo agli archetipi A e B, non anche a C e D.
Il de-condizionamento dunque non è il liberarsi da qualcosa di esterno, ma è il frutto del superamento della limitazione nel sentire.
Postulato questo e dando per assodato che più vasto è il sentire, maggiore la libertà di scelta, rimane il problema del basso tasso di creatività che spesso si riscontra nelle persone che pure avrebbero cose da dire.
Un caso che ben esprime questo è rappresentato dalla insana attitudine a diffondere contenuti sapienziali e di saggezza attraverso i social media, o l’altrettanto insana consuetudine in ambiente spirituale a citare senza fine le parole del maestro, del fondatore a cui si fa riferimento.
Si sceglie per comodità, per pigrizia, per non esporsi e non rischiare la via di abdicare al proprio intervento creativo diretto e si comunica quel che si sente attraverso le parole di un altro: così facendo è come se non usassimo l’infinito potenziale creativo della vita, è come se una pianta decidesse di non produrre semi, tanto lo fa la pianta accanto.
Si decide di abdicare, dicevo: sento qualcosa, oppure leggo qualcosa, risuono con ciò che leggo e comunico-veicolo il mio sentire attraverso la condivisione di quel contenuto.
Sentire qualcosa è il primo passo dell’atto creativo; ad esso segue la non sempre semplice operazione di trovare il pensiero efficace per esprimerlo, il calore emotivo per vestirlo, la sintassi necessaria per renderlo nella forma più adeguata: questo è il processo creativo dal quale ci asteniamo utilizzando il processo di un altro.
Alla fine, anche se rinunciamo, non è la stessa cosa? No, non lo è: certo, quel dato sentire è stato espresso comunque da qualcuno, ma vi faccio notare che mille possono essere i modi di esprimere lo stesso sentire e se 999 rinunciano e si appoggiano magari sull’uno che lo ha fatto per primo, i 999 rinunciano ad un aspetto importante e fondamentale nella edificazione del senso della propria esistenza.
Qui è il problema: una vita per conferire senso deve essere fondata su un alto tasso di creatività.
Ci sono paradigmi religiosi che sono intonsi da migliaia di anni, lo trovo innaturale: tutto nasce e tutto muore, un paradigma si fonda sull’espressione del sentire di un individuo, o di una ristretta cerchia di individui e poi, venendo adottato da un numero crescente di persone, diviene un archetipo.
Viene alimentato e consolidato nel tempo e viene infine superato quando il sentire delle persone che l’hanno adottato cambia ed evolve: nessuno ha lo stesso sentire per una vita intera e tanto meno per diverse vite.
L’archetipo che mi ha illuminato il cammino a trent’anni, oggi per me significa ben poco: sono cambiato nel sentire, ho abbandonato quella adesione, ho anche acquisito strumenti nuovi e, avendo osato coltivare l’intuizione, il pensiero e l’azione creativa, non ho avuto il problema di aderire ad un altro archetipo, ma ho sviluppato una visione originale della realtà corrispondente al sentire che ho maturato.
Certo, la visione di oggi è la risultante del processo che mi ha condotto qui e di tutti gli archetipi cui ho aderito, ma è anche il frutto della morte di quegli archetipi: solo ciò che permettiamo che muoia può rinascere in forma nuova, può portare frutto.
Non si tratta dunque di andare di religione in religione, di via in via, di esperienza in esperienza, si tratta di scendere nel ventre di quanto si va sperimentando, osando senza fine mettersi in discussione, lasciando morire il vecchio e aprendosi a ciò che bussa ad un sentire mai uguale a se stesso.
Quando questo si può fare non da soli, ma con altri, il tasso di creatività è molto alto: se tutti gli attori in gioco indagano nel ventre delle proprie vite, la fecondità è assicurata.
Questo è il processo esistenziale che genera senso e pienezza fino alla fine dei nostri giorni, e che non teme l’età anagrafica e il limite che ciascuno inevitabilmente marca.
Avrei commentato con un GRAZIE. Ma Marco mi ha messa in crisi…non lo faccio mai per questioni sbrigative,semplicemente perché spesso rimane molto difficile aggiungere altre parole ai post.Quando si arriva infondo alla lettura ,ciò che si sente è anche un grande senso di gratitudine, per cui un grazie, ci sta ! Sulla creatività c’ è senz’altro da lavorare…
Spesso commentiamo con un grazie. Io stesso lo faccio. E’ un modo molto sbrigativo per assolvere un obbligo. Non fraintendetemi, non voglio dire che non ci sia riconoscenza. Ho solo voglia di essere provocatorio. Nei confronti di me stesso, innanzitutto. Certo, ci sono mille ragioni per rispondere in modo sbrigativo. Il tempo, per esempio. Ma non credo che siano sufficienti a giustificare quella modalità. Da un po’ di tempo i miei ‘grazie’ cominciano a starmi stretti…
Parole sante..
Concordo appieno roberto e ti chiedo una delucidazione, quando dici: “Il de-condizionamento dunque non è il liberarsi da qualcosa di esterno, ma è il frutto del superamento della limitazione nel sentire.” nel quotidiano e cioè nel divenire può assumere l’aspetto di un processo di de-condizionamento, cioè all’umano può APPRIRE come un liberarsi da condizionamenti esterni e interni appunto? (spero di essere stata chiara!)