Commenta Serena nel post La necessità della pratica meditativa e della disconnessione: Non sono sicura che per me la meditazione sia una pratica di gratuità, dovrebbe esserlo?! In realtà è un mezzo che mi permette di allenarmi alla disconnessione, alla maggior consapevolezza. Vero è che il fine è nobile, ma cos’è la vera gratuità?
Le persone della via praticano la meditazione come strumento e come fatto, come pratica gratuita.
Come strumento appartiene al divenire ed ha un grado variabile di gratuità.
Come fatto è interno all’Essere ed è pratica di gratuità.
Finché siamo umani, qualunque nostra azione ha un tasso di condizionamento ed è interna ad un processo che da un punto ci conduce ad un altro punto:
pratichiamo perché abbiamo bisogno di disconnettere, o vogliamo coltivare quella disposizione;
pratichiamo perché aspiriamo ad una vita più consapevole, o per coltivare un maggiore abbandono e una più ampia fiducia nella vita;
più genericamente, pratichiamo perché fa parte della via che seguiamo e desideriamo cambiare noi stessi ed andare oltre quel che siamo.
Ciò che conta è che durante la giornata, o la settimana, ci fermiamo e deliberatamente e consapevolmente sviluppiamo una attitudine squisitamente interiore.
In alcuni, per un lungo tratto di strada, la pratica della meditazione è condizionata ed è funzionale a qualcosa: poco male, significa che queste persone non hanno ancora in sé le comprensioni che permettono loro di praticare senza scopo.
La pratica in sé, come tutto il vivere d’altra parte, conducendo alla routine produce uno svuotamento di senso e, quando le persone si accorgeranno che meditare non ha più alcun senso per loro, o smetteranno e andranno a cercare altro, o comprenderanno che la meditazione come la vita non debbono necessariamente avere un senso, anzi, la loro potenzialità si svela quando la ricerca del senso viene superata.
Ci sono anche persone che fin dall’inizio della loro pratica si muovono nell’ambito della gratuità: evidentemente queste persone hanno già le comprensioni per vivere quella condizione.
C’è un modo di meditare giusto? C’è una pratica giusta? A mio parere, ognuno sviluppa quel che gli è possibile e quando smetteremo di dire che questo è giusto e quello no, vorrà dire che la nostra pratica ci avrà insegnato qualcosa di essenziale.
Perché lì arriviamo: oltre il giusto e lo sbagliato, nella contemplazione di quel che è.
Nell’umano, essendo esso inserito nel divenire, tutto è processo e tutto produce frutto: ciò non toglie che quando l’umano è pronto, la pratica della meditazione lo porta a vivere più nella dimensione dell’essere che in quella del divenire, ad immergersi consapevolmente e senza volontà in Ciò che è.
La pratica della meditazione ha in sé anche il codice della sua distruzione e del suo superamento: essendo essa vita senza scopo e senza condizionamento, permea di quella disposizione e di quel sentire l’intero nostro essere, e l’insieme del tempo del nostro quotidiano: dalla pratica della meditazione passiamo alla vita come meditazione; dalla meditazione all’atteggiamento meditativo.
Le persone della via praticano la meditazione come strumento e come fatto, come pratica gratuita.
Come strumento appartiene al divenire ed ha un grado variabile di gratuità.
Come fatto è interno all’Essere ed è pratica di gratuità.
Finché siamo umani, qualunque nostra azione ha un tasso di condizionamento ed è interna ad un processo che da un punto ci conduce ad un altro punto:
pratichiamo perché abbiamo bisogno di disconnettere, o vogliamo coltivare quella disposizione;
pratichiamo perché aspiriamo ad una vita più consapevole, o per coltivare un maggiore abbandono e una più ampia fiducia nella vita;
più genericamente, pratichiamo perché fa parte della via che seguiamo e desideriamo cambiare noi stessi ed andare oltre quel che siamo.
Ciò che conta è che durante la giornata, o la settimana, ci fermiamo e deliberatamente e consapevolmente sviluppiamo una attitudine squisitamente interiore.
In alcuni, per un lungo tratto di strada, la pratica della meditazione è condizionata ed è funzionale a qualcosa: poco male, significa che queste persone non hanno ancora in sé le comprensioni che permettono loro di praticare senza scopo.
La pratica in sé, come tutto il vivere d’altra parte, conducendo alla routine produce uno svuotamento di senso e, quando le persone si accorgeranno che meditare non ha più alcun senso per loro, o smetteranno e andranno a cercare altro, o comprenderanno che la meditazione come la vita non debbono necessariamente avere un senso, anzi, la loro potenzialità si svela quando la ricerca del senso viene superata.
Ci sono anche persone che fin dall’inizio della loro pratica si muovono nell’ambito della gratuità: evidentemente queste persone hanno già le comprensioni per vivere quella condizione.
C’è un modo di meditare giusto? C’è una pratica giusta? A mio parere, ognuno sviluppa quel che gli è possibile e quando smetteremo di dire che questo è giusto e quello no, vorrà dire che la nostra pratica ci avrà insegnato qualcosa di essenziale.
Perché lì arriviamo: oltre il giusto e lo sbagliato, nella contemplazione di quel che è.
Nell’umano, essendo esso inserito nel divenire, tutto è processo e tutto produce frutto: ciò non toglie che quando l’umano è pronto, la pratica della meditazione lo porta a vivere più nella dimensione dell’essere che in quella del divenire, ad immergersi consapevolmente e senza volontà in Ciò che è.
La pratica della meditazione ha in sé anche il codice della sua distruzione e del suo superamento: essendo essa vita senza scopo e senza condizionamento, permea di quella disposizione e di quel sentire l’intero nostro essere, e l’insieme del tempo del nostro quotidiano: dalla pratica della meditazione passiamo alla vita come meditazione; dalla meditazione all’atteggiamento meditativo.
Grazie