L’amore per sé, la dignità, l’usare l’altro

Amore per sé e dignità sono indissolubilmente legati: l’uno genera l’altra e viceversa.
Qui mi interessa esaminare la questione dell’amore per sé e della dignità come esperienze interiori e nella relazione con l’altro.
L’uso quotidiano dell’altro: ogni giorno esso viene come simbolo vivente nelle nostre vite e narra innanzitutto di noi e, in parte varia, di sé.
Il primo e principale uso che facciamo dell’altro è dunque quello di utilizzarlo come mezzo per lo svelamento: è la lente che ci permette di vederci meglio.
E’ un uso non consapevole, esistenziale e più che altro inconscio.
Il secondo uso è relativo alla sfera dell’identità, dell’egoismo e dell’egotismo: pieghiamo l’altro a noi, ai nostri bisogni, al nostro progetto.
Cos’è l’esperienza dell’amore per sé? E’ possibile amare qualcosa che non esiste? Amiamo l’immagine di noi, il capolavoro estetico, intellettuale, relazionale che ci illudiamo di essere? Non credo, anche perché è dura considerarsi un capolavoro.
Allora cos’è questo amore per sé? La piena accettazione e considerazione? Per così poco non chiamerei in causa l’amore.
L’amore per sé, espressione orribile lasciatemelo dire, significa dunque altro:
è un’esperienza precisa di equilibrio, armonia, allineamento che si sostanziano non in un soggetto, in una identità, in una manifestazione ma in una condizione d’essere.
Cos’è una condizione d’essere? Uno stato nell’universo di equilibrio, armonia, allineamento.
Un punto nell’universo che quello sperimenta e sintetizza.
L’insieme di tutti i veicoli dell’umano che vivono e affermano nella consapevolezza quella condizione d’essere: questo punto nell’universo È!
L’esperienza dell’amore per sé a questo rimanda: dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, tutto è, ora.
L’amore attraversa l’insieme di quel punto e produce quell’esperienza che non si capisce come possa essere stata definita l’amore per sé, non parlando di alcun sé, ma solo dell’allineamento perfetto tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo.
Ciò che “verticalmente” attraversa tutti i corpi di un inesistente soggetto, quando giunge a toccare il più denso di essi, e quindi è perfettamente incarnato, risplende di una pienezza, di una completezza, di un senso, di un essere e irradia attorno quell’esperienza, la diffonde come cerchi concentrici sull’acqua, come vibrazione e diviene l’amore per l’altro.
Ingloba l’altro nell’esperienza perché supera ogni frattura e divisione.
L’esperienza dell’amore per sé sorge solo in assenza di soggetto: se c’è soggetto non c’è amore, ma altro.
Se c’è l’esperienza di quella fusione che è “verticale”, e immancabilmente “orizzontale”, l’amore è.
Questa esperienza produce un frutto immediato: l’esperienza della dignità.
Non la dignità di un soggetto, la dignità d’essere. Cos’è?
La piena bellezza e legittimità dell’umano, di quel che è.
L’umano splende per quel che è: punto, aspetto, forma dell’Assoluto.
Quell’esperienza intima, profonda e pervadente irradia attorno e tutto tiene assieme, perché tutto unifica: l’amore per l’altro – altra espressione discutibile che nulla significa ad un certo livello di comprensione – è quella condizione in cui il punto, la forma, l’aspetto non hanno separazione alcuna rispetto ad altri punti, forme ed aspetti.
Quando la persona vive questo in sé, allora comprende anche la volgarità dell’usare l’altro.
Volgare è ciò che è separato nell’esperienza interiore e piegato al proprio egoismo, alla centralità del soggetto e, nella affermazione di quella centralità, non si cura dell’altro ma principalmente di sé, colorando l’esperienza con le tinte della meschinità.
Solo il soggetto può usare; solo chi ha perso, o non realizzato quella connessione di cui ho parlato, può allungare il suo desiderio sull’altro.
Tutti oscilliamo tra l’essere e il divenire e, in quest’ultimo, l’usare si affaccia: quelli che sono pronti, disconnettono e tornano all’essere; quelli che pronti non sono, fanno quello che a loro necessita.
Qui parlo a quelli che possono, invitandoli a veder il gioco tra essere e divenire mantenendosi vigili.
E parlo a quelli che non possono ma, pur non potendo, leggono queste righe e pongo loro un problema: chi via autorizza ad allungarvi sull’altro?


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Catia Belacchi

Non avevo mai pensato che amore per sè significasse quanto tu argomenti; gli davo un significato soltanto psicologico. Mi sembra che quanto tu dici sia la realizzazione in termini moderni di ciò che ci invita a fare il Cristo: l’amore per sè, nei termini qui esposti, porta necessariamente ad amare l’altro come se stessi.

Sandra Pistocchi

“L’esperienza dell’amore per sé sorge solo in assenza di soggetto: se c’è soggetto non c’è amore, ma altro.” Grazie robi! Da questo assunto tutto si dispiega…

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