“Benedetti coloro che hanno conosciuto la propria irrilevanza”

Beati gli umili: di essi è il regno dei cieli. Matteo 5,3. Traduzione Giuseppe Barbaglio. I vangeli, Cittadella Editrice.
Beati i poveri davanti a Dio, perché di essi è il regno dei cieli. Matteo 5,3. Traduzione di Secondo Migliasso. I vangeli, Oscar Mondadori.
Felici i poveri secondo lo spirito perché di loro è il regno dei cieli. Matteo 5,3. Traduzione letterale di Armando Vianello. Azzurra 7 Editrice.
Felici i poveri perché vostro è il regno di Dio. Luca 6,20. Traduzione letterale di Armando Vianello.
Il passo di Matteo non trova corrispondenza in Marco, né in Tommaso.
E’ possibile che il Maestro non abbia mai pronunciato quelle parole, ma non sbaglia la tradizione ad attribuirgliele: certamente esse esprimono la sua intenzione, il suo spirito e sono ampiamente confermate dall’insieme dell’insegnamento e dalla sua vita.
Beati gli umili; beati i poveri davanti a Dio; felici i poveri secondo lo spirito: di questo voglio trattare.
Io direi: benedetti coloro che hanno conosciuto la propria irrilevanza.
Il ritenersi piccoli e insignificanti, il comprendersi irrilevanti; il sentire in ogni piega del proprio essere che non siamo il centro, ma solo un’espressione, un lampo, di qualcosa di infinitamente più grande che è l’alfa e l’omega: queste comprensioni sono il sale della vita, il suo completamento, la fine di ogni peregrinazione.
Ho impresse nell’interiore le differenze di accento che si sono evidenziate ogni volta che abbiamo affrontato questo tema con Gianni Giacomelli, priore del monastero camaldolese di Fonte Avellana: Gianni, come tanti cristiani, teme l’accento sull’irrilevanza di sé e valorizza la dimensione del dio-uomo, dell’incarnazione e del vivere come liberazione che non è però superamento dell’itinerario umano.
Io penso che la condizione umana sia transitoria – e non perché si muore – che sia il luogo e il tempo in cui la coscienza viene forgiata per divenire poi il corpo di una nuova esistenza che non ha più la necessità né di un corpo fisico, né di uno emozionale e nemmeno di uno mentale.
Questa visione mi sembra sia difficile da comprendere per un cristiano legato naturalmente ad un’altra escatologia, quella tramandata dalla tradizione.
Personalmente penso che una sintesi tra le due visioni sia possibile ma, nel tempo, ho visto delle difficoltà ad entrare in una visione antropologica ed escatologica differenti.
Il superamento della condizione umana è, dal mio punto di vista, l’epilogo del vivere: l’incarnazione, sotto molti punti di vista, non è il fine, ma solo il mezzo.
Se osserviamo la vita di tanti che nel tempo ci hanno preceduto nella via spirituale, scopriamo come, alla fine del loro procedere esistenziale, essi avvertano come oramai conclusa l’avventura umana: nel momento in cui la pienezza del loro vivere e manifestarsi si è coniugata con la comprensione dell’irrilevanza di sé, il completamento è avvenuto e il percorso umano è finito.
Dunque sono necessarie due condizioni:
– la pienezza della propria umanità che porta con sé la fine della brama di raggiungere e realizzare;
– la comprensione della propria irrilevanza.
L’umano che non cerca più – perché ciò che cercava è in sé giunto a realizzazione – e che comprende e sente la propria condizione di semplice essere che manifesta l’Essere, non ha più dove andare e qualcosa da raggiungere, dunque vive la vita che viene, che lo attraversa, compie non la volontà sua, ma la volontà della Vita.
L’incarnazione splende nella sua impermanenza e, quando la fine giunge, non ci sarà prosièguo, non ci sarà nuova vita nella forma umana, corredata dei veicoli umani: sarà semplicemente finita, nella pienezza del limite l’Assoluto avrà mostrato il suo volto.
Allora, noi possiamo veramente dire: benedetti coloro che hanno conosciuto la propria irrilevanza!
Chi ha conosciuto quella irrilevanza di sé, non ha dubbi: il cammino umano termina con la fine dell’umano e con l’avvento in sé di una pienezza che è all’origine dell’umano, ma che da esso non può essere contenuta, né in esso può trovare duratura manifestazione.
Non a caso, il Maestro muore e il simbolo della sua resurrezione di altro non parla che di una vita nuova, in una dimensione nuova.
Quando l’umano finisce, un nuova capitolo dell’essere e dell’esistere si apre, privo di connotazione egoica e strettamente personale: l’ambito della coscienza e del suo mondo diviene esperienza tangibile, piano su cui si sperimenta, nuova natura del vivere.
La conoscenza della propria irrilevanza diviene infine la conoscenza della rilevanza dell’Assoluto.


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Catia Belacchi

Credo che nella concezione cristiana non ci sia superamento dell'”itinerario umano”, come tu ti esprimi, perchè non c’è itinerario umano. Non c’è il dispiegarsi della comprensione e del sentire di coscienza che avvengono di incarnazione in incarnazione, fino a giungere all’irrilevanza di sè, come ben è trasposta l’espressione evangelica: beati i poveri secondo lo spirito. In una concezione di esistenza dove l’umano vive una sola vita, il tempo per giungere all’irrilevanza di sè non è dato. Per questo l’uomo ha bisogno di un tramite a cui guardare , l’Uomo/Dio; grazie a quel tramite può aspirare all’umiltà o all’irrilevanza ma non saprei da quanti, in questo modo, può essere esperita.

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