Divenire ed essere, operare e contemplare

[…] la vastità è pervasività del già preformato. Ed è proprio con questa visione della realtà che si scontra l’uomo che percorre quella via cosiddetta evolutiva (la via del migliorarsi e trasformarsi, ndr), perché non è abituato a mettere in discussione la sua voglia ed il suo sforzo tesi verso la costruzione di un obiettivo di crescita comune, di aiuto all’altro e di miglioramento di ciò che lo circonda, che però parlano principalmente di lui in un mondo “per lui”.
E quando sente questo suo assunto venir messo in crisi da una visione dell’esistenza in cui ciascun essere è inserito in una rete di incontri che è solo da riconoscere, quell’uomo ha difficoltà a decostruire ciò che ha edificato sulla vita e perciò a togliere via quei veli – i suoi concetti – che nascondono che tutto è già. (1)

In questo testo della Via della Conoscenza ci sono diverse frasi chiave che occorre interpretare in modo corretto:
–  “la vastità è pervasività del già preformato”: l’esperienza della vastità dell’esistente diviene reale nel momento in cui ci si lascia da esso attraversare, non aggiungendo altro, non chiedendogli di essere diverso da ciò che è;
– “ciascun essere è inserito in una rete di incontri che è solo da riconoscere”: tutti gli esseri sono interconnessi e ciascuno ha il necessario esistenziale a sé; postulato questo, l’unica possibilità è riconoscere ciò che già è senza aggiungere altro;
– “togliere via quei veli – i suoi concetti – che nascondono che tutto è già”: per riconoscere ciò che è, bisogna farsi da parte, ovvero superare l’identificazione con i propri concetti, credenze, pregiudizi, supposizioni, memorie, condizionamenti, lasciando che l’altro – chiunque e di qualsiasi natura sia – possa scorrere il proprio film secondo la sua necessità esistenziale.
Vi invito a meditare a fondo le tre espressioni sopra citate, sono il cardine di tutto il cammino.
Le menti/identità naturalmente si ribellano nel vedere che viene messo in discussione un cardine della visione occidentale: operare per il bene comune, per l’aiuto all’altro, per il miglioramento di ciò che ci circonda; questa visione, propria della via trasformativa ed evolutiva che vede al centro un soggetto che si trasforma, cosa diventa nell’ottica dell’essere e della contemplazione?
Il soggetto che si colloca al centro della scena – come accade nell’ottica duale/trasformativa – vede se stesso e il mondo e tutto ciò che questo gli offre come possibilità, o come ostacolo; legge ciò che gli manca come negazione e guarda alla realtà propria e altrui nell’ottica del giusto e dello sbagliato, del bene e del male e in quella del diritto e del dovere.
Lo sguardo dell’essere è quanto mai differente, vede le interconnessioni e il respiro esistenziale e unitario dei fatti, di ciò che è:
– nel divenire, coglie il senso esistenziale e trasformativo del sentire di quanto accade;
– nell’essere, accoglie i fatti come ciò che sono e su cui nulla si può aggiungere.
Allora, nulla conta l’operare il bene e la giustizia?
Certo, conta per sé, all’interno della logica trasformativa di sé: in quella visione il bene operato, o il danno provocato, testimoniano e perfezionano il sentire in evoluzione e quindi hanno un senso se la persona sente che con essi deve misurarsi. Consapevoli che la visione delle realtà è soggettiva, mai sapremo se realmente il nostro operare ha prodotto una modificazione nella vita dell’altro: sappiamo cosa ha prodotto in noi, e questo ci deve bastare.
La stessa persona, potrebbe non sentirsi interpellata, sempre e comunque, dalla necessità di trasformarsi, potrebbe essere oramai pronta ad abbandonare la via del divenire per risiedere prevalentemente in quella dell’essere: questa persona, non agirebbe perché pungolata dalla necessità/impellenza di cambiare/misurarsi/migliorarsi, ma semplicemente perché mossa da una spinta che non le appartiene, che non ha radici nella sua identità/umanità relativa.
Questo ci riconduce allo sterminato tema dell’amore e del suo operare: cosa diventa una persona quando non opera più perché vuole, ma semplicemente perché è condotta?
Non si tratta dunque di non operare più il bene, o la giustizia, ma di farlo nella piena consapevolezza di cosa ci muove:
– il nostro bisogno di comprendere, che implica la presenza di una nostra soggettività?
– quel vento che chiamiamo amore e che non ha soggetto che deve comprendere alcunché e che anzi abbisogna che esso scompaia?
Secondo la mia esperienza, le due spinte convivono, ora con l’accento sull’una, ora sull’altra e credo che sia così fino alla fine, perché fino ad allora permane comunque qualche residuo di soggettività. OE, ID 17.1


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1- Fonte: La Via della Conoscenza, La vastità nella particolarità. Circolarità dello scomparire e dell’apparire (96) disponibile dal 20.1, qui.

 

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3 commenti su “Divenire ed essere, operare e contemplare”

  1. Allentata la presa essere e divenire, immbobilità ed operare sembrano non essere più alternative duali, piuttosto le due parti che formano un’onda: il divenire è l’emergere dell’onda, la cresta; l’essere è lo sprofondare dell’onda nella vastità, il ventre.
    Continuo ed ininterrotto è il passaggio tra le due fasi.

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  2. Sono d’accordo quando dici, alla fine del tuo argomentare, che le due visioni convivono: il bisogno di comprendere e la spinta a dare perchè si è condotti. Credo che dipenda, almeno per me, dalla situazione che si presenta; non con tutti gli altri siamo subito allo stesso modo disponibili: a volte occorre un atto di volontà e la soggettività allora emerge.

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