Definisco stabilità interiore quella condizione emotiva, cognitiva ed esistenziale in cui un naturale fluttuare appoggia sulla chiara visione del proprio procedere esistenziale ancorato ad una visione unitaria di sé e della vita.
La chiara visione del personale procedere sorge quando si esce dalle nebbie dell’ignoranza e si diviene capaci di decodificare quanto il presente porta come insegnamento e quanto come semplice presa d’atto.
La chiara visione nasce dal discernimento dei fatti, delle reazioni personali conseguenti e dalla capacità di non nascondersi di fronte alle proprie responsabilità, affrontando ciò che va affrontato e alleggerendo su ciò che lo richiede.
Non c’è chiara visione quando ogni fardello si carica sulle proprie spalle, né quando ogni peso si evita: entrambe le reazioni ruotano sullo stesso fulcro, la centralità di un sé che di tutto è riferimento, o che da tutto rifugge essendo comunque e sempre lui la pietra miliare di riferimento.
Nella centralità di sé, la vita e i fatti che essa porta, non sono lo scorrere senza fine delle possibilità, o del loro essere in sé; no, sono i nostri fatti e la nostra vita e in quella attribuzione ogni possibilità di discernimento viene limitata e ogni chiara visione tarpata.
Qualcosa insegna, e allora impariamo; qualcosa viene e va, e allora osserviamo e contempliamo: in sé è semplice, ma noi carichiamo tutto di domande, del nostro bisogno di esserci, di uno straripare senza fine e il risultato è che non c’è né ordine, né semplicità, né chiarezza, c’è solo il rumore di noi.
Ogni stabilità appoggia sulla conoscenza, sulla consapevolezza e sulla comprensione: è un altro modo per dire sulla chiara visione.
Se il problema dell’offuscamento di sguardo è in quell’eccesso di sé, e credo che pochi possano negarlo, allora sono necessarie due condizioni delle quali ho parlato senza fine in passato:
– di una lettura/interpretazione di sé adeguata;
– di una pratica di vita che ci permetta di tornare senza sosta all’essenziale, al necessario distacco, alla chiara visione.
Quando di tutto credo di essere il centro, cosa mi riporta alla periferia, all’osservazione, al lasciar andare dopo aver compiuto la giusta analisi, quando necessaria?
La stanchezza per il mio rimuginare, per la mia pesantezza, per il ritorno del sempre uguale: questa è la via dolorosa del ritorno.
La conoscenza, la consapevolezza, la comprensione che c’è un limite oltrepassato il quale bisogna solo lasciar andare, senza indugio: questa è la via del ritorno consapevole.
A volte vi ascolto parlare, leggo le vostre considerazioni e sento vicino il vostro procedere fluttuante tra le identificazioni: più le identificazioni vengono disconnesse, meno sorgono, a meno che non siano rimozioni.
L’opera di disconnessione è incessante: dalla centralità di sé, al margine, senza fine.
Se hai coltivato questa disposizione nella meditazione, o nella preghiera del cuore, l’esicasmo, o in quella silenziosa, hai creato un automatismo, un orientamento interiore che inclina naturalmente verso il lasciar andare, il non perseverare.
Se non hai alle spalle una pratica di questo genere, sei come un meccanico senza la cassetta degli attrezzi: una volta disconnetti e due no, e poi dici: “È difficile!” e trovi anche qualcuno che te lo conferma, non essendoci cieco che non ne trovi un altro che gli confermi l’inesistenza della luce.
In realtà ti manca solo quello scivolo interiore che nell’arco di poco e con relativo sforzo, ti porterebbe a lasciar andare, a tornare ad osservare i fatti, a contemplare la chiara visione e a recuperare quella stabilità di fondo che a tutti è data, ma alla cui cura dedichiamo così poche risorse. OE 28.1
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Mi sento molto interpellata da questo post…. ne farò tesoro! Grazie
” Chiara visione” come sinonimo di “conoscenza, consapevolezza, comprensione” ; uno spunto di riflessione che non avrei immaginato con questo paragone. In un periodo di concentrazione pressochè nulla, questi post mi invitano a non perdere la centratura.