Tratteggio di seguito alcune considerazioni stimolate dalla lettura del libro: Il cammino del monaco, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose: sono solo appunti e come tali vanno considerati.
1- L’illusione di poter dedicare l’esistenza a Dio, l’amato. L’esistenza è già di Dio, chi la dedica a chi?
Il monaco dedica la propria vita all’incontro con Dio ma, bisogna precisare, l’artefice dell’incontro non è il monaco, è Dio: quello del monaco è un movimento di apertura, di svelamento, di accoglienza, di resa non di conquista.
Dio non si possiede, si è da Lui posseduti; non lo si raggiunge, si è raggiunti; non lo si conosce, si è conosciuti.
Il lungo cammino della conoscenza è il gesto reiterato senza fine del divenire trasparenti a ciò che già ci informa, già ci plasma e già ci costituisce.
La conoscenza di sé è lo svelamento di Dio che opera in noi, non è il primo piolo di una scala che ha al suo vertice la conoscenza di Dio, non essendo Dio altro e in un altrove da noi.
La disposizione del monaco a conoscersi è gesto di svelamento, di diradamento delle nebbie che offuscano lo sguardo e nascondono la realtà che già è: Dio, nella sua unità d’essere, è immanente quanto trascendente, è tutto il creato e solo la nostra interpretazione di separati, di divisi, di frammentati ci aliena da lui.
La separazione non è un fatto, è un’illusione: non c’è alcuna scala da salire, ma solo veli da cui non lasciarsi più ottenebrare.
Il monaco non va verso l’Amato, scopre l’amore che alberga in sé, amore universale e senza connotazione.
Dunque la vita del monaco è dedicata all’incontro con Dio sapendo che Dio già è e non diviene: ciò che diviene è lo svelarsi, il chiarificarsi e il purificarsi dell’ignoranza del monaco.
Queste precisazioni sono importanti e ben note in ambiente cristiano, almeno ai più avveduti.
I rischi impliciti nel non tenere in debito conto questo? La pretesa di poter giungere a Dio attraverso la propria volontà, la propria soggettività e non attraverso la conoscenza, la resa e la dissoluzione del soggetto che la conoscenza porta con sé.
L’esistenza di qualcuno che si ama e a cui si rivolge il proprio pensiero e la propria intenzione, la propria dedizione e fedeltà, la personale sequela ed imitazione, implica un soggetto che ama, una relazione amante/amato.
Qualcuno ama qualcun’altro: la presenza di un soggetto e di un oggetto interni alla relazione qualifica questa come squisitamente umana, dal limite dell’umano derivante e alla sua illusorietà soggetta.
Questa relazione ha un senso nell’orizzontalità propria dell’incontro tra umano e umano, è priva di senso se applicata alla tensione esistente tra il creatore e la sua creatura, tra il sentire assoluto e quello relativo.
Il sentire relativo non ama il sentire assoluto essendo parte indistinguibile ed inseparabile da esso: è irrimediabilmente condotto verso quella condizione assoluta, è amore che incontra l’amore; non può essere soggetto che ama, è amore in atto.
Ne consegue che Dio non si ama, se non nella narrazione delle menti e delle soggettività che così sanciscono la propria separazione: Dio è l’amore che realizza l’amore in ogni essere che appare da Lui separato nell’illusorietà del divenire.
Se il monaco è colui che dedica la propria vita a Dio e all’unificazione con Lui e interpreta Dio come altro da sé, allora edifica due celle di una tangibile prigione: la cella in cui mette Dio, l’irraggiungibile; la cella in cui mette se stesso, il separato.
Se il monaco si apre all’amore di Dio che ogni cosa intesse, allora non costruisce alcuna cella: la sua vita e quella di Dio sono un’unica partitura.
Se Dio non è altro da sé, allora non c’è alcuno che gli vada incontro: esiste l’atto del portare ad evidenza, dello svelare ciò che già è.
Non dunque è il monaco proteso verso Dio ma, potremmo dire, che è Dio proteso verso la sua creatura, il compito della quale non è quello di unificarsi con la sua origine, ma quello di lasciare che l’unificazione si dispieghi e manifesti consapevolmente.
Il monaco non ama Dio, quell’amore sarebbe un’illusione, la pallida proiezione di un richiamo ontologico, di una nota di fondo che risuona nell’intimo di ogni essere e che lo conduce, oltre la propria personale volontà, nel tempo delle innumerevoli e illusorie vite, a scoprire l’unità che è sempre esistita e che è rimasta celata in virtù dell’ignoranza con cui egli si è identificato credendo di essere altro da Dio, sua origine e ragione.
Il monaco non ama Dio, vive e incarna l’amore di Dio così come gli dato e così come può accoglierlo nel ventre del suo sentire che è limitato solo dalla sua parziale e limitata capacità di comprensione.
La separazione tra il monaco e Dio non è reale, ma virtuale e illusoria ed è sancita dal limite di comprensione con il quale il monaco si identifica, e si identifica perché così facendo si qualifica come soggetto. Il giorno in cui avrà superato la necessità di qualificarsi come soggetto, allora anche la separazione dalla sorgente, dall’origine, da Dio verrà meno, non essendo essa reale ma frutto della percezione, dell’interpretazione e della comprensione non compiuta.
Il superamento di questa illusione è possibile quando nell’intimo del monaco muore l’idea di Dio cui ha aderito: muore l’idea dell’Amato e, superato il lutto che ne consegue, sorge l’esperienza dell’Essere che in nessun modo può essere definito l’Amato ma, semmai, l’Amore che è.
Non si ama l’amore, né vi si aderisce: si è interni alla sua natura o ci si illude di ignorarla, in vario grado.
L’ottica separativa dalla quale il monaco è partito viene superata dall’operare stesso dell’Amore, dalla natura di Dio che si impone: viene superata l’ottica e con essa il monaco stesso, alla fine del processo non rimarrà infatti alcun portatore di nome, di funzione, o di percorso.
Rimarrà, alla fine, il ciò che è, il senza nome che vive e sperimenta l’alchimia della fusione degli opposti oramai realizzati e compresi nella loro irrealtà e illusorietà, incarnando nell’adesso di ogni respiro l’Uno che mai diviene due.
2- L’illusione di estrarsi dal mondo.
Se il mondo è una entità oggettiva esterna a sé, allora è possibile misurare la distanza da esso, o l’integrazione in esso. Ma se il mondo è concepito come entità soggettiva che rappresenta il cammino trasformativo del sentire di ciascuna coscienza, allora non c’è mondo esterno a sé, c’è solo la rappresentazione dei propri processi interiori nello spazio e nel tempo.
Il mondo è una proiezione dell’interiore: in una grotta o in una città, il nostro sentire, i nostri pensieri, le nostre emozioni, il compreso e il non compreso ci accompagnano impietosi e fedeli.
Il monaco si allontana dal mondo per coltivare la relazione interiore con Dio? Dovunque vada non può allontanarsi da se stesso e dal suo non compreso, ed è questo che gli vela il volto di Dio, non il mondo che del compreso e del non compreso è solo specchio.
Ovunque il monaco vada incontrerà le proprie incomprensioni e, se non viste e lavorate, le proietterà sul suo mondo e sui suoi fratelli: il coltivare la relazione con Dio diverrà la foglia di fico dietro alla quale nasconderà il suo non risolto, realizzando e consolidando la sua frattura interiore.
Se il mondo è il nostro mondo, la rappresentazione esteriore del nostro mondo interiore, allora, con questa chiarezza, il monaco può costruire il suo cenobio o il suo eremo, sa che attraverso l’altro, chiunque o qualsiasi cosa esso sia, incontrerà se stesso e il Dio unitario che gli si svela oltre la coltre delle sue incomprensioni.
3- L’illusione del celibato.
Non si sposa, non si accompagna il monaco per non avere distrazioni, per non distogliere lo sguardo dal processo di unificazione, per dedicare ogni pensiero, ogni intenzione alla relazione con Dio, alla unificazione con l’Amato.
Nella sua mente il monaco ha forse costruito il vitello d’oro della propria fede e lo adora e solo a lui si dedica? Non vede il monaco che è l’altro che ci indica la via? Che è l’altro che ci svela l’idolatria? Non vede che non è l’amore umano, così semplice e limitato e impastato di fatica e di ignoranza, che ci può offuscare lo sguardo, che ci può impedire di ascoltare quanto bussa nel profondo? Semmai, quell’amore limitato quello più grande prefigura..
Non vede il monaco che il bussare dell’altro che chiede di decentraci da noi e di accoglierlo, è il bussare di Dio che chiede di dimenticarsi di sé per aprirsi al Reale?
Non vede nell’altro il monaco il volto di Dio, l’essere Suo che viene e si dichiara e spazza via l’idea di Dio e di sé?
E tanto più li spazza via quanto più la relazione è interna con quell’altro, quanto più è intima e complice?
E non abbiamo bisogno di essere spazzati via da Dio affinché esista solo Lui? Non l’idea che ci siamo costruiti di Lui e di noi..
E chi ci spazza via se non, soprattutto, quello che viene e a cui non possiamo dire di no perché abbiamo speso una parola, una promessa, perché un affetto ci lega, un impegno assunto ci impedisce una scrollata di spalle?
E quell’impegno non è la veste di Dio che indossa l’altro? L’impegno con l’altro non ci distoglie da Dio, a Lui ci riconduce perché sempre l’altro parla di noi e del nostro velo, ci svela dunque, ci conduce oltre la nostra centralità, oltre il nostro egoismo incontro alla neutralità dei fatti, all’evidenza del mondo altro da noi e non riconducibile alla nostra pretesa: conducendoci oltre il nostro limitato sguardo ed orizzonte, ci apre sullo sconfinato Essere, ogni giorno più vasto.
Chi compie questo miracolo di svelarci il Dio interno alle cose, ai fatti, ai processi? Più saremo affettivamente legati all’altro, più efficacemente ci scardinerà; più penseremo di possederlo, più ci svelerà la nostra impotenza; più lo vorremo conoscere e più ci sfuggirà: ogni giorno l’altro ci porta oltre noi ed ogni giorno ci svela livelli più profondi della Realtà. L’altro complice, vicino, intessuto con noi è il gesto svelante di Dio, la sua rivelazione.
Se questo il monaco lo vede, e lo vede, come può pensare che l’amore di e per un partner, l’amore di e per un figlio, possa distogliere da quella capacità di ascolto della profondità assoluta che in ogni vita si fa presenza grazie al vivere stesso, e che giunge a noi e ci disarma attraverso il presentarsi dell’altro?
Il piccolo ascolto dell’altro apre al grande ascolto; l’esperienza del piccolo amore prepara l’avvento del grande amore; il cammino della separazione e del suo superamento nell’umano canta la natura del Tutto, mai separato.
Ciò che distoglie il monaco dal processo consapevole di unificazione sono le sue non comprensioni e queste si possono affrontare e superare solo nella relazione umana. non nella relazione con il Dio altro e illusorio, ma con l’altro da sé.
L’altro da sé demolisce il vitello d’oro della propria adesione di fede e ci costringe ad aprire gli occhi sul Dio vivente.
Se al celibato si associa, come quasi sempre avviene in occidente – e non di rado anche in oriente – anche il cammino della castità, allora ci si spinge su di una china ancor più faticosa e popolata di fantasmi.
Certo, se la persona è nel sentire pronta, il celibato e la castità sono uno splendore privo di sforzo e ricco di doni.
Se la persona, come la gran parte delle persone, ha da completare il proprio cammino di comprensione, il celibato e la castità non divengono altro che sovrastrutture, un compito sommato ad altri compiti, o un impianto di rimozioni sommato ad altre censure e rimozioni.
O un orizzonte ideale, un vitello d’oro a cui si vota una esistenza.
Le prime tre illusioni producono la quarta.
4- L’illusione della lotta interiore.
Essendosi assegnato compiti quanto meno onerosi ed intrisi di idealità, di finalità e di scopo, più interni alla sua dimensione cognitiva, volitiva ed ideale che a quella ontologica, il monaco ipoteca il suo futuro e lo illumina con il conflitto tra l’impegno preso e la complessità e varietà del vivere che bussa.
Avendo fissato molto in alto l’asticella delle aspettative, dei compiti e degli scopi, il suo salto produce frequenti cadute.
La logica della lotta interiore suggella il fallimento di un’intenzione: invece di obbedire semplicemente e solamente alla propria vocazione interiore che lo chiama all’unità attraverso il vivere e a niente altro, il monaco aggiunge sovrastrutture, idoli ed etiche alle quali si vota e si dedica, allontanandosi irrimediabilmente da se stesso e costruendo un piccolo universo popolato di obbiettivi, di doveri, di illusioni e proiezioni e di inevitabili conflitti.
La morte del Dio nel quale crede e che suppone di amare;
la consapevolezza che il mondo è l’immagine di sé;
la piena scoperta che l’altro è colui che salva e indica la via;
la comprensione che non si può lottare, che non è quella né la via, né la chiave ma occorre conoscere, divenire consapevoli, comprendere, lo conducono incontro alla meta.
La lotta interiore svela la frattura tra quel che si è e quel che si vorrebbe essere: il monaco che risponde alla chiamata che nell’interiore lo interpella e che non può eludere, se chiamata c’è, ha un compito radicalmente altro: andare oltre quel che è e quel che vorrebbe essere, per accogliere l’amore di Dio che lo conduce a far pace con la propria natura e con quella del mondo e, in quella pace ritrovata e svelata, dimenticare se stesso per divenire “volto feriale di Dio”.
Noi concepiamo un nuovo monachesimo:
– che è risposta ad una domanda e ad una chiamata interiore;
– che è esperienza dell’amore di Dio che vibra nel vivente e che si fa pervadente ed immanente fino a trasmutare l’essere personale e i suoi tracciati esistenziali;
– che non è adesione ad una forma, ad un ideale, ad un procedere, ma è scoperta, un riconoscere ciò che già è, senza sosta, ad ogni respiro immersi nella molteplicità dei sentire e delle forme;
– che è incontro tra sentire affini che non perseguono la separazione dal mondo, o da aspetti di sé, ma coltivano il riconoscere il Reale e scelgono, a volte di procedere come comunità di sentire, altre in solitudine, altre nell’anonimato del mondo immersi nelle più diverse funzioni e ruoli.
Concepiamo un nuovo monachesimo frutto dell’amore di Dio che plasma le vite e libera dalle idealità umane e dalle interpretazioni di Dio che l’umano costruisce e venera.
Abbiamo nel cuore la corrispondenza col Cuore di Dio e il loro vibrare all’unisono: non noi che andiamo verso Dio, ma la scoperta che Dio è la Realtà unica esistente lasciando che questa scoperta, sempre limitata e parziale nell’umano, attraversi ogni consapevolezza ed ogni comprensione fino ad impregnare di sé la trama di ogni realtà personale, quotidiana e feriale.
Abbiamo nella mente e nel cuore il monachesimo dell’uomo che accoglie Dio, non dell’uomo che anela a Dio. OE ID7.2
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“La lotta interiore svela la frattura tra quel che si è e quel che si vorrebbe essere: il monaco che risponde alla chiamata che nell’interiore lo interpella e che non può eludere, se chiamata c’è, ha un compito radicalmente altro: andare oltre quel che è e quel che vorrebbe essere, per accogliere l’amore di Dio che lo conduce a far pace con la propria natura e con quella del mondo”
…..niente da aggiungere…..grazie di ricordarcelo Roberto!
Veramente illuminante, grazie!
“Ovunque il monaco vada incontrerà le proprie incomprensioni e, se non viste e lavorate, le proietterà sul suo mondo e sui suoi fratelli: il coltivare la relazione con Dio diverrà la sua foglia di fico dietro alla quale nasconderà il suo non risolto, realizzando e consolidando la sua frattura interiore”.
Credo si possa applicare a qualunque “fuga” l’uomo metta in atto per fuggire da se stesso.
Grazie
Grazie roberto! Parole ce vanno impresse a fuoco per non dimenticare…