Pubblico degli stralci di una lettera che mi ha scritto una lettrice con cui da tempo sono in contatto, e poi provo ad analizzarne delle parti significative per il cammino interiore di molti che vivono quanto la persona descrive e, magari, non riescono a vedere e analizzare con altrettanta chiarezza la loro situazione esistenziale. Naturalmente, non mi limito alle considerazioni che la nostra amica fa, ma da esse parto per sviluppare un tema così come oggi lo comprendo, senza pretesa di completezza nella trattazione.
1 Ormai vivo così lontana dalle relazioni che mi circondano, la condizione dell’eremita è stabile in me anche se sono presente a tutti quelli che mi circondano; l’esserci per tutti è rimasto intatto, ma diverso da quel che era un tempo.
2 Pur vivendo immersa nelle faccende quotidiane, nei rapporti, nei discorsi, vivo una solitudine sconfinata; certe volte mi chiedo se sono depressa senza saperlo.
3 So chi sono per gli altri: una madre […]; ma dietro quel ruolo, quell’abito che indosso a richiesta, non c’è nessuno, nulla.
Neanche prima riuscivo a stare nei ruoli, non è mai stato facile, non ce l’ho mai fatta ad essere qualcuno, per quanto mi sia sempre stato chiaro chi ero per gli altri, ho sempre visto chi vedevano in me, fin da bambina, e ho sempre sentito il disagio di non essere né voler essere quel che vedevano. […]
4 Un tempo ero una persona emotiva, mi coinvolgevo nei vissuti altrui e miei, ora no; o meglio, non più per le cose umane; mi emoziona il bosco, il canto del merlo all’alba, lo spazio di cielo e mare che vedo dal monte, l’odore della terra; ma non è neanche emozione, solo una grande tenerezza, un sorriso dell’anima tutt’uno col sorriso del creato; perché fuori dai discorsi, tormenti e fatiche umane di chi mi circonda, tutto mi sorride e a tutto sorrido; la natura, nel minimo come nell’immenso mi rapisce, lì non c’è nessuna richiesta d’essere qualcuno. […]
5 Sono finite quelle esperienze di un tempo, come se il mistero non parlasse più o avesse un linguaggio nuovo che non so decifrare.
Non c’è più quella gioia immotivata che per anni mi ha abitata e che distributivo a piene mani contagiando gli altri, e che mi metteva le ali.
6 Ultimamente ho la percezione di una vita lontana millenni, dico millenni per farmi capire e anche perché di millenni si tratta; ma, in assenza di tempo, sento la vita di un’epoca e di un luogo così estranei a me, eppure sono stati miei; è come se da un vissuto lontano e irraggiungibile, avessi lanciato uno sguardo qui, alla mia vita di oggi e nello stesso momento avessi, da qui, incrociato quello sguardo; ma anche a questo non ho reazioni interiori, prendo quel che viene senza cercare spiegazioni “è reale, non è reale”, che sia un gioco della mente o altro, che importa, è la mia realtà del momento.
7 Non riesco a definire niente, neanche come mi sento, a parte il vuoto.
Rimane sì, immutata, la sensazione antica e indefinibile di me che coincide con lo sguardo sul mondo, un guardare da una solitudine, a tratti immensa.
1 L’eremita: colui/colei che abita l’eremo interiore. Cos’è l’eremo interiore? Una condizione di solitudine e di silenzio non riducibili, la consapevolezza del procedere con la responsabilità della propria esistenza sulle spalle e della relatività di ogni relazione, di ogni illusione e consolazione, di ogni appiglio.
Non è l’eremita, che edifica una dimensione interiore, una lettura di sé e del suo mondo, che costituisce l’eremo interiore: questo è il frutto di una disposizione di fondo, di un programma esistenziale, di una vocazione potremmo azzardarci a dire.
L’eremita obbedisce a quanto già è e gli si dischiude alla comprensione solo col tempo e con l’esperienza: questa è la ragione per cui ha bisogno di tempo e di dedizione ad esso e di un distacco dalla pressione che l’umano altro esercita su di lui.
L’altro c’è, è presente, ne condividiamo la presenza e l’insegnamento, ma siamo intimamente soli e lontani e di quella solitudine e lontananza abbiamo necessità come dell’aria che respiriamo.
La consapevolezza di questo essere soli, lontani, responsabili, dediti al tempo del vivere, dell’imparare, del contemplare, del lasciar andare senza fine ogni cosa, ogni fatto, ogni persona, ogni avvenimento, liberi dal vincolo dell’appartenenza e della identificazione, del ricondurre a sé, è l’eremo interiore che costituisce l’eremita.
L’eremo interiore è configurato e definito da una necessità di tempo, di silenzio, di assenza, di lontananza; dal non essere pressati da scadenze e obbiettivi, da una serie di ragioni che conducono l’eremita a prendere una distanza dalla sollecitazione: questa è forse l’espressione chiave, l’eremita sceglie una disposizione interiore che è compatibile con un basso tasso di sollecitazione e attorno a questa necessità interiore vede, man mano, edificarsi l’eremo interiore, la sua roccia interiore, il suo punto zero, il suo deserto di sé dove tutto è quel che è e non ha bisogno di abbellimenti o di consolazioni.
Nel profondo, ogni persona è ontologicamente sola, ma una irrilevante minoranza si definisce eremita e lo fa chi, quella solitudine, la assume come un valore, come un marchio impresso nell’interiore, come un tracciato a cui si può solo obbedire. Non come una condanna, né come una originalità: come un’obbedienza ad un tracciato esistenziale.
Può usare il termine eremita chi non teme la definizione convenzionale di questo: se pensiamo che l’eremita sia quello che vive in solitudine, celibato e castità, abbiamo solo ristretto l’ampio spettro del significato di questo termine racchiudendolo entro i confini di una specifica cultura religiosa.
Il monaco è colui che, nella solitudine della propria responsabilità, cerca e realizza l’unificazione interiore.
L’eremita condivide la condizione ontologica del monaco (dal lat. tardo monăchu(m), che è dal gr. monachós ‘unico’, poi ‘solitario’ (e quindi ‘monaco’), deriv. greca di mónos ‘solo, unico’ ) e pone l’accento sul suo procedere solitario, appartato, dove sperimenta la non riducibilità di quella solitudine e lontananza generata dall’eremo interiore che lo costituisce.
Quella dell’eremita è una esperienza precisa, chi la vive la riconosce, se ne ha gli strumenti interpretativi; ha poco a che fare con il vivere in mezzo al bosco lontano dal mondo: dovunque l’eremita va, tale permane, non è la presenza dell’altro che gli impedisce il cammino, semmai è il vincolo creato artificiosamente dall’altro che teme.
Qui, nell’Eremo dal silenzio, siamo normalmente in due, una coppia: nel tempo abbiamo imparato a rispettarci, ad anticipare le domande e i bisogni, a rispondere con sollecitudine in modo da non intralciarci. Siamo l’uno per l’altra degli agevolatori e quindi non viviamo la convivenza come vincolo, o come sollecitazione, o come ingombro, ma come fattore di liberazione reciproca.
Cerchiamo di servire la libertà, la solitudine, il silenzio dell’altro: la convivenza non è dunque un fattore limitante, ma qualcosa che è al servizio dell’eremo interiore.
2 Solitudine e depressione: la nostra amica parla di una “solitudine sconfinata”, io userei le espressioni “solitudine irriducibile”, “solitudine ontologica”.
Colui che si dedica al cammino interiore senza consolazioni, il monaco, frequenta con una certa assiduità sia quella solitudine irriducibile che alcuni stati di umore basso, di svuotamento, di perdita radicale di senso che comunemente vengono definiti depressione, o stato depressivo.
Quando la mente/identità perde i suoi appigli e trastulli, quando li vede diradarsi e pian piano scomparire, entra in una condizione di lutto: le sembra che ci sia solo il perdere, solo il deserto. In realtà, stati di serenità e di pienezza si alternano a stati di lutto e, col tempo e le comprensioni, questi ultimi si diradano fino a scomparire lasciando la persona in una stabilità di fondo, con relative e limitate oscillazioni d’umore.
Naturalmente bisogna considerare che chi vive dedito alla via interiore, diviene anche molto consapevole dei suoi moti e stati interiori, dal momento che per tutto il tempo gli osserva e li lascia andare: è condizione normale, ad esempio, che in certi momenti dell’inverno in cui l’irradiazione solare è al minimo, ci sia un calo dell’umore.
E’ altrettanto normale, in quell’ascolto e in quell’osservazione senza fine, che emergano aspetti di sé, del proprio non compreso che ci appesantiscono e, a volte, ci producono sconforto.
Ed è ancora normale che una mente smascherata senza soluzione di continuità, abbia i suoi bassi di vittimismo, si lagni e si deprima: questa è la ferialità di chi non fugge da sé, una parte della sua ferialità che si alterna alla quiete, alla pace, alla pienezza o, semplicemente, all’essere e al vivere senza qualificazione.
Rimane sì, immutata, la sensazione antica e indefinibile di me che coincide con lo sguardo sul mondo, un guardare da una solitudine, a tratti immensa.
1 L’eremita: colui/colei che abita l’eremo interiore. Cos’è l’eremo interiore? Una condizione di solitudine e di silenzio non riducibili, la consapevolezza del procedere con la responsabilità della propria esistenza sulle spalle e della relatività di ogni relazione, di ogni illusione e consolazione, di ogni appiglio.
Non è l’eremita, che edifica una dimensione interiore, una lettura di sé e del suo mondo, che costituisce l’eremo interiore: questo è il frutto di una disposizione di fondo, di un programma esistenziale, di una vocazione potremmo azzardarci a dire.
L’eremita obbedisce a quanto già è e gli si dischiude alla comprensione solo col tempo e con l’esperienza: questa è la ragione per cui ha bisogno di tempo e di dedizione ad esso e di un distacco dalla pressione che l’umano altro esercita su di lui.
L’altro c’è, è presente, ne condividiamo la presenza e l’insegnamento, ma siamo intimamente soli e lontani e di quella solitudine e lontananza abbiamo necessità come dell’aria che respiriamo.
La consapevolezza di questo essere soli, lontani, responsabili, dediti al tempo del vivere, dell’imparare, del contemplare, del lasciar andare senza fine ogni cosa, ogni fatto, ogni persona, ogni avvenimento, liberi dal vincolo dell’appartenenza e della identificazione, del ricondurre a sé, è l’eremo interiore che costituisce l’eremita.
L’eremo interiore è configurato e definito da una necessità di tempo, di silenzio, di assenza, di lontananza; dal non essere pressati da scadenze e obbiettivi, da una serie di ragioni che conducono l’eremita a prendere una distanza dalla sollecitazione: questa è forse l’espressione chiave, l’eremita sceglie una disposizione interiore che è compatibile con un basso tasso di sollecitazione e attorno a questa necessità interiore vede, man mano, edificarsi l’eremo interiore, la sua roccia interiore, il suo punto zero, il suo deserto di sé dove tutto è quel che è e non ha bisogno di abbellimenti o di consolazioni.
Nel profondo, ogni persona è ontologicamente sola, ma una irrilevante minoranza si definisce eremita e lo fa chi, quella solitudine, la assume come un valore, come un marchio impresso nell’interiore, come un tracciato a cui si può solo obbedire. Non come una condanna, né come una originalità: come un’obbedienza ad un tracciato esistenziale.
Può usare il termine eremita chi non teme la definizione convenzionale di questo: se pensiamo che l’eremita sia quello che vive in solitudine, celibato e castità, abbiamo solo ristretto l’ampio spettro del significato di questo termine racchiudendolo entro i confini di una specifica cultura religiosa.
Il monaco è colui che, nella solitudine della propria responsabilità, cerca e realizza l’unificazione interiore.
L’eremita condivide la condizione ontologica del monaco (dal lat. tardo monăchu(m), che è dal gr. monachós ‘unico’, poi ‘solitario’ (e quindi ‘monaco’), deriv. greca di mónos ‘solo, unico’ ) e pone l’accento sul suo procedere solitario, appartato, dove sperimenta la non riducibilità di quella solitudine e lontananza generata dall’eremo interiore che lo costituisce.
Quella dell’eremita è una esperienza precisa, chi la vive la riconosce, se ne ha gli strumenti interpretativi; ha poco a che fare con il vivere in mezzo al bosco lontano dal mondo: dovunque l’eremita va, tale permane, non è la presenza dell’altro che gli impedisce il cammino, semmai è il vincolo creato artificiosamente dall’altro che teme.
Qui, nell’Eremo dal silenzio, siamo normalmente in due, una coppia: nel tempo abbiamo imparato a rispettarci, ad anticipare le domande e i bisogni, a rispondere con sollecitudine in modo da non intralciarci. Siamo l’uno per l’altra degli agevolatori e quindi non viviamo la convivenza come vincolo, o come sollecitazione, o come ingombro, ma come fattore di liberazione reciproca.
Cerchiamo di servire la libertà, la solitudine, il silenzio dell’altro: la convivenza non è dunque un fattore limitante, ma qualcosa che è al servizio dell’eremo interiore.
2 Solitudine e depressione: la nostra amica parla di una “solitudine sconfinata”, io userei le espressioni “solitudine irriducibile”, “solitudine ontologica”.
Colui che si dedica al cammino interiore senza consolazioni, il monaco, frequenta con una certa assiduità sia quella solitudine irriducibile che alcuni stati di umore basso, di svuotamento, di perdita radicale di senso che comunemente vengono definiti depressione, o stato depressivo.
Quando la mente/identità perde i suoi appigli e trastulli, quando li vede diradarsi e pian piano scomparire, entra in una condizione di lutto: le sembra che ci sia solo il perdere, solo il deserto. In realtà, stati di serenità e di pienezza si alternano a stati di lutto e, col tempo e le comprensioni, questi ultimi si diradano fino a scomparire lasciando la persona in una stabilità di fondo, con relative e limitate oscillazioni d’umore.
Naturalmente bisogna considerare che chi vive dedito alla via interiore, diviene anche molto consapevole dei suoi moti e stati interiori, dal momento che per tutto il tempo gli osserva e li lascia andare: è condizione normale, ad esempio, che in certi momenti dell’inverno in cui l’irradiazione solare è al minimo, ci sia un calo dell’umore.
E’ altrettanto normale, in quell’ascolto e in quell’osservazione senza fine, che emergano aspetti di sé, del proprio non compreso che ci appesantiscono e, a volte, ci producono sconforto.
Ed è ancora normale che una mente smascherata senza soluzione di continuità, abbia i suoi bassi di vittimismo, si lagni e si deprima: questa è la ferialità di chi non fugge da sé, una parte della sua ferialità che si alterna alla quiete, alla pace, alla pienezza o, semplicemente, all’essere e al vivere senza qualificazione.
3 Dietro al ruolo, non c’è nessuno: è anche questa, come quella dell’eremita, una esperienza precisa, specifica e peculiare che può comprendere solo chi la vive, non può essere compenetrata da una mente.
L’esperienza del non esserci, dell’inesistenza: i ruoli e le funzioni sono rappresentazioni; prima di essi, oltre essi, non c’è alcuno, c’è il vuoto di sé, c’è qualcosa che in nessun modo può essere definito persona, soggetto.
Prima della rappresentazione c’è l’essere, che non è qualcuno, è uno stato del sentire decodificabile solo ad un certo punto del cammino, quando si sono creati i sensi per coglierlo, per specchiarlo.
E’ evidente il gioco di ruolo del vivere, ed altrettanto evidente l’assenza di un sé: mi si obbietterà che però è presente l’esperienza di un Sé.
Certamente, l’esperienza dell’essere: non usiamo il termine Sé, perché questa denominazione rimanda ad una soggettività, anche se più alta e spirituale.
Esistono molti livelli dell’essere e del sentire, ma una costante di essi è che portano con sé, anche quando ancora contengono una limitazione e tracce di separatività, la consapevolezza della complessiva unità del tutto: è quella complessiva unità del tutto che viene sperimentata, lì cade l’accento dell’esperienza del sentire, non su di una possibile limitazione e su di un residuo di percezione soggettiva.
Oltre la rappresentazione non c’è più nessuno e si apre l’esperienza della Realtà: la relazione con la natura, per la nostra amica, è l’ambito in cui quella realtà unitaria canta; per altri quel canto trova espressione nell’accoglienza e nella contemplazione della molteplicità delle interiorità dell’umano il cui spettacolo ci ammutolisce.
La bugia della mente che racconta dell’esistenza di noi, il suo essere specchio fallace, ingannevole e irreale, sono una evidenza di fronte alla quale ci troviamo: una evidenza che non si presta al dubbio ed è sorretta da una chiara ed inequivocabile esperienza.
4 Tutto mi sorride e a tutto sorrido: questa è la dimensione che incontra chi è disponibile a perdere se stesso, l’attaccamento all’illusoria immagine e cognizione di sé.
“Tutto mi sorride e a tutto sorrido” significa: del vivere vedo il senso, il disegno ed il gioco e una infinita leggerezza mi pervade; essa deriva dalla perdita della mia centralità e dall’avvento di quel che è. Un amore, vasto, tenero e impersonale, mi attraversa.
Quel che è non parla di me, parla della vita: finalmente posso vedere, ascoltare, fare senza il peso della aspettativa e del giudizio, senza essere mosso dal bisogno, senza dover rendere conto, senza cercare alcunché. Posso vivere e basta, e quel vivere è puro dono, pura gratuità che non ha bisogno di aggiunte.
Con questo nel cuore, la compassione mi pervade e posso sorridere a tutti gli esseri e godere del loro sorriso che non è rivolto a me, è solo un sorriso affidato al vento.
5 La fine delle esperienze eclatanti: c’è una stagione, quella che io chiamo dei fenomeni e che ben conosce il neofita, che è destinata a finire.
Penso all’apparizione della luce e della voce a Paolo di Tarso sulla via di Damasco: quello è un fenomeno molto roboante, duro era il soggetto, mirabolante è stato il fenomeno.
La maggior parte di noi vive fenomeni più modesti ma, nell’impressione interiore, non meno significativi: la definirei la stagione dell’avvio della conversione, della mutazione dello sguardo e del cuore; l’apertura su di un sentire più vasto e sconosciuto per cui non esistono ancora strutture atte ad accoglierlo.
L’impatto di quel sentire su dei veicoli inadatti ad ospitarlo e a tradurlo/decodificarlo, produce il fenomeno.
Finisce, insieme al finire dell’alto e del basso, del bene e del male, del piacevole e dello spiacevole.
Finisce e prepara il deserto che verrà: deserto di sé e dei propri riferimenti interiori; deserto di prospettiva e di senso.
Finisce il circo delle rappresentazioni e inizia la didattica della realtà.
6 Lontananza: lontani ed estranei alla vita che pure è quella che dovrebbe essere nostra.
Ho già accennato a questo tema: non solo non c’è nessun soggetto, non c’è alcuna vita di quel soggetto.
La vita che viene vissuta ferialmente appare ai nostri occhi come neutrale, impossibile auto attribuircela: stranieri a noi e alla vita che la mente ci attribuisce.
Stranieri, lontani, neutrali, estranei.
Vi preoccupa questo? Non è doloroso, è una evidenza, un dato di fatto: viene percepito il sentire di coscienza cui è ben evidente il carattere di rappresentazione di ogni figurante che compare sulla scena, e l’effimera sostanza del suo operare.
Stranieri, lontani, neutrali, estranei: è una esperienza che dura delle stagioni, poi si attenua e lascia il campo ad una normalità, ad una ferialità senza picchi, senza sensazioni e sentimenti forti dove domina la neutralità.
7 Il vuoto: si può essere infinitamente vicini ed infinitamente lontani simultaneamente? E si può essere pieni e trabbocanti di senso e, simultaneamente, vuoti di un vuoto che non ha compensazione?
Si può essere soli e lontani e guardare la vita da anni luce di distanza, eppure essere simultaneamente prossimi ad ogni essere?
L’impossibilità di non riuscire più a definire niente, come dice la nostra amica, deriva dal vivere in sé questi opposti apparentemente inconciliabili.
La risposta a queste domande è sì, si può vivere l’uno e l’altro senza che questo generi conflitto: in realtà, quegli opposti altro non sono che i volti nell’unità e coabitano in noi, e danzano ora mostrando un volto, ora l’altro.
Nella persona che è in comunione profonda con la realtà, tutto si compendia, tutto vive, tutto trova manifestazione e sintesi: siamo una immensa officina e se non la osserviamo con gli occhi della mente ma con quelli del sentire, ciò che vi accade è solo ciò che vi accade e niente è l’opposto di qualcosa.
OE,ID26.2
L’esperienza del non esserci, dell’inesistenza: i ruoli e le funzioni sono rappresentazioni; prima di essi, oltre essi, non c’è alcuno, c’è il vuoto di sé, c’è qualcosa che in nessun modo può essere definito persona, soggetto.
Prima della rappresentazione c’è l’essere, che non è qualcuno, è uno stato del sentire decodificabile solo ad un certo punto del cammino, quando si sono creati i sensi per coglierlo, per specchiarlo.
E’ evidente il gioco di ruolo del vivere, ed altrettanto evidente l’assenza di un sé: mi si obbietterà che però è presente l’esperienza di un Sé.
Certamente, l’esperienza dell’essere: non usiamo il termine Sé, perché questa denominazione rimanda ad una soggettività, anche se più alta e spirituale.
Esistono molti livelli dell’essere e del sentire, ma una costante di essi è che portano con sé, anche quando ancora contengono una limitazione e tracce di separatività, la consapevolezza della complessiva unità del tutto: è quella complessiva unità del tutto che viene sperimentata, lì cade l’accento dell’esperienza del sentire, non su di una possibile limitazione e su di un residuo di percezione soggettiva.
Oltre la rappresentazione non c’è più nessuno e si apre l’esperienza della Realtà: la relazione con la natura, per la nostra amica, è l’ambito in cui quella realtà unitaria canta; per altri quel canto trova espressione nell’accoglienza e nella contemplazione della molteplicità delle interiorità dell’umano il cui spettacolo ci ammutolisce.
La bugia della mente che racconta dell’esistenza di noi, il suo essere specchio fallace, ingannevole e irreale, sono una evidenza di fronte alla quale ci troviamo: una evidenza che non si presta al dubbio ed è sorretta da una chiara ed inequivocabile esperienza.
4 Tutto mi sorride e a tutto sorrido: questa è la dimensione che incontra chi è disponibile a perdere se stesso, l’attaccamento all’illusoria immagine e cognizione di sé.
“Tutto mi sorride e a tutto sorrido” significa: del vivere vedo il senso, il disegno ed il gioco e una infinita leggerezza mi pervade; essa deriva dalla perdita della mia centralità e dall’avvento di quel che è. Un amore, vasto, tenero e impersonale, mi attraversa.
Quel che è non parla di me, parla della vita: finalmente posso vedere, ascoltare, fare senza il peso della aspettativa e del giudizio, senza essere mosso dal bisogno, senza dover rendere conto, senza cercare alcunché. Posso vivere e basta, e quel vivere è puro dono, pura gratuità che non ha bisogno di aggiunte.
Con questo nel cuore, la compassione mi pervade e posso sorridere a tutti gli esseri e godere del loro sorriso che non è rivolto a me, è solo un sorriso affidato al vento.
5 La fine delle esperienze eclatanti: c’è una stagione, quella che io chiamo dei fenomeni e che ben conosce il neofita, che è destinata a finire.
Penso all’apparizione della luce e della voce a Paolo di Tarso sulla via di Damasco: quello è un fenomeno molto roboante, duro era il soggetto, mirabolante è stato il fenomeno.
La maggior parte di noi vive fenomeni più modesti ma, nell’impressione interiore, non meno significativi: la definirei la stagione dell’avvio della conversione, della mutazione dello sguardo e del cuore; l’apertura su di un sentire più vasto e sconosciuto per cui non esistono ancora strutture atte ad accoglierlo.
L’impatto di quel sentire su dei veicoli inadatti ad ospitarlo e a tradurlo/decodificarlo, produce il fenomeno.
Finisce, insieme al finire dell’alto e del basso, del bene e del male, del piacevole e dello spiacevole.
Finisce e prepara il deserto che verrà: deserto di sé e dei propri riferimenti interiori; deserto di prospettiva e di senso.
Finisce il circo delle rappresentazioni e inizia la didattica della realtà.
6 Lontananza: lontani ed estranei alla vita che pure è quella che dovrebbe essere nostra.
Ho già accennato a questo tema: non solo non c’è nessun soggetto, non c’è alcuna vita di quel soggetto.
La vita che viene vissuta ferialmente appare ai nostri occhi come neutrale, impossibile auto attribuircela: stranieri a noi e alla vita che la mente ci attribuisce.
Stranieri, lontani, neutrali, estranei.
Vi preoccupa questo? Non è doloroso, è una evidenza, un dato di fatto: viene percepito il sentire di coscienza cui è ben evidente il carattere di rappresentazione di ogni figurante che compare sulla scena, e l’effimera sostanza del suo operare.
Stranieri, lontani, neutrali, estranei: è una esperienza che dura delle stagioni, poi si attenua e lascia il campo ad una normalità, ad una ferialità senza picchi, senza sensazioni e sentimenti forti dove domina la neutralità.
7 Il vuoto: si può essere infinitamente vicini ed infinitamente lontani simultaneamente? E si può essere pieni e trabbocanti di senso e, simultaneamente, vuoti di un vuoto che non ha compensazione?
Si può essere soli e lontani e guardare la vita da anni luce di distanza, eppure essere simultaneamente prossimi ad ogni essere?
L’impossibilità di non riuscire più a definire niente, come dice la nostra amica, deriva dal vivere in sé questi opposti apparentemente inconciliabili.
La risposta a queste domande è sì, si può vivere l’uno e l’altro senza che questo generi conflitto: in realtà, quegli opposti altro non sono che i volti nell’unità e coabitano in noi, e danzano ora mostrando un volto, ora l’altro.
Nella persona che è in comunione profonda con la realtà, tutto si compendia, tutto vive, tutto trova manifestazione e sintesi: siamo una immensa officina e se non la osserviamo con gli occhi della mente ma con quelli del sentire, ciò che vi accade è solo ciò che vi accade e niente è l’opposto di qualcosa.
OE,ID26.2
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grazie Roberto
Davvero notevole l’ esperienza raccontata nella lettera e allo stesso modo veramente chiarificatrici le tue osservazioni.
Innumerevoli spunti di riflessione e confronto. Grazie!
Un inchino profondo…