Il disagio esistenziale, psicologico, fisico è provocato da elementi di non comprensione che la coscienza va cercando di acquisire e che trovano resistenze nell’impianto dell’io, dell’identità.
Secondo il C.Ifior il 99% di questi disagi e malattie ha origine nel conflitto coscienza/identità: la coscienza richiede dati ma il sistema dei corpi inferiori che costituiscono l’identità non è in grado di fornirglieli; nella comunicazione tra i vari corpi c’è un sofisticato sistema di decodifiche che non funziona e che dà origine a cristalizzazioni – ovvero a ripetuti tentativi di ottenere risposte privi di sbocchi – dalle quali si originano le turbe del comportamento, o le malattie fisiche.
Noi abbiamo sempre affermato che la fede/fiducia altro non è che un aprirsi fiduciosi ai processi dell’esistenza e abbiamo anche e sempre negato che esse siano l’affidarsi a qualcuno che ci “salva”.
Quindi concepiamo la fede/fiducia come un processo fondato sulla conoscenza, sulla consapevolezza e sulla comprensione: in questo processo è di fondamentale importanza la disponibilità della persona a fare esperienze, ad imparare, a divenire consapevole conoscendosi. Le comprensioni verranno da sé, come frutto di queste disposizioni.
La disponibilità ad imparare e ad agevolare i processi: è questa la sostanza e il veicolo della fiducia, ed è questo che facilita il fluire dei dati tra i corpi e dunque sancisce la “produttività” dei processi.
Le esperienze altro non sono che dati che fluiscono tra i corpi: se questi dati possono essere decodificati, scambiati e recepiti c’è trasformazione, altrimenti no.
La fede/fiducia è una disposizione di apertura, di creatività fattiva ed operante, di permeabilità, di accettazione del limite e della sua messa in discussione: può essere sorretta da una più o meno vasta consapevolezza, ma ciò che conta è che l’intero sistema sia aperto al cambiamento, non arroccato, non prigioniero della paura e della rimozione.
Si cambia anche senza essere consapevoli di cambiare: i processi possono scavarci e modularci in profondità, là dove la nostra limitata consapevolezza non giunge, cambiamo comunque.
Se siamo consapevoli dei nodi esistenziali nei quali ci siamo impigliati, allora il cambiamento avverrà con un minor tasso di dolore: la fede/fiducia opera indistintamente nella persona consapevole come in quella inconsapevole perché crea l’humus favorevole al germogliamento del seme del cambiamento.
Allo stesso modo opera la fiducia nel medico, nella terapia, in Dio: la persona, incapace di considerare la fiducia in sé, disposizione che da sola basta a creare le condizioni favorevoli per lo scorrere dei processi, personalizza, antropomorfizza quella disposizione.
Essa si affida al medico e alla terapia che avviene attraverso esso, allo psicoterapeuta e al processo dell’accompagnamento, a Dio e alla salvezza che Egli porta.
Sono tre livelli di affidamento differenti: il primo è quello più meccanico, il secondo apre sostanzialmente al fronte della conoscenza, il terzo può avere molte connotazioni, dal chiedere un beneficio personale, al mettersi nelle mani di una potenza trascendente affidandosi alla sua volontà.
Nelle persone a volte convivono tutti e tre i livelli di affidamento, a volte solo due, altre solo uno.
A mio parere, più è ampia l’apertura, più facilitati sono i processi di cambiamento.
Arrivo alla domanda che ha mosso questo post: ci salva Dio? No, non c’è nessun Dio che salva, non essendoci alcuna condanna che pende sull’umano che non sia ad esso imputabile.
Il nostro star male dipende da noi e il nostro guarire pure.
La disposizione interiore caratteristica della fede/fiducia è il frutto di una nostra assunzione di responsabilità, come il rifiuto, la negazione e la fuga sono il rifiuto della responsabilità di sé.
Se andiamo a vedere la genesi della fiducia, scopriamo che nasce dal caricarsi sulle spalle la responsabilità della propria vita e dei suoi processi: quella assunzione di responsabilità permette l’affermarsi, l’affluire, lo scorrere di una forza vitale la cui esperienza chiamiamo fiducia. A partire da quel non tirarsi indietro di fronte a sé, da quell’aprirsi a sé, si attivano tutte le forze necessarie alla sperimentazione di ciò che conseguirà.
Dalla negazione di sé nascono invece la rassegnazione, il vittimismo, la depressione intesa come mortificazione della forza vitale che innerva i processi e li conduce ad evoluzione.
L’umano ha sempre una chance: quante volte, di fronte ad una malattia grave e minacciosa, dopo una prima fase di disorientamento, ci sentiamo pervadere da una forza nuova e risolutiva?
Questo è l’avviarsi del processo della fiducia e sorge dalla nostra capacità di guardare in viso la situazione, di non fuggirla, di caricarcela sulle spalle.
Quando, di fronte alla prima reazione, che è di disorientamento, ripieghiamo nello scoraggiamento, ecco, lì non abbiamo colto la chance che avevamo a disposizione.
Non si tratta di lottare contro il disagio o la malattia, ma di essere disposti a coglierne la sfida e l’opportunità.
Se la malattia è il frutto della non comprensione, la responsabilità e la fiducia sono le condizioni per il suo superamento, dunque per la comprensione. OE23.4
Newsletter “Il Sentiero del mese” | Novità dal Sentiero contemplativo
Ricevi una notifica quando esce un nuovo post. Inserisci la tua mail:
Quante volte mi sono interrogata sulla mia capacità di comprendere i fatti che sono accaduti e che tutt’ora accadono! A volte prevale un senso di inadeguatezza, di non essere sufficientemente capace di comprendere qual’è l’insegnamento. Sento che c’è di supporto una fiducia di fondo, ma non è chiaro il messaggio. Proprio di questo periodo, al riaffiorare di una difficoltà, si ripropone l’interrogativo. Tanta ancora è la strada da fare.
“….A mio parere, più è ampia l’apertura, più facilitati sono i processi di cambiamento….” Condivido questo parere, anche se la mia è solo un’ opinione, piuttosto che un’ esperienza consolidata..
Personalmente vivo questa apertura di fede/fiducia quando rimango in una situazione, in ciò che c’è, fermandomi e ascoltando/osservando, anche se la mia mente mi desidera fortemente andare/essere altrove. In questi casi mi ricordo che “ciò che c’è” è la cosa più importante che posso vivere e che può insegnarmi… Penso, cioè, che il cercare di essere in “ciò che c’è” presuppone l’abbandono del controllo e un atteggiamento di fede/fiducia.
Questa che oggi hai toccato è una tematica a me particolare cara sia per il lavoro che svolgo ma soprattutto per l’esperienza personale di guarigione da un problena agli occhi avvenuta ormai molti anni fa:quell’esperienza conoscitiva ha innescato un procedere sempre più consapevole che ora non può più fermarsi.
Grazie