Al lettore. Chi scrive ha acquisito nella sua comprensione dei punti fermi relativi alla condizione unitaria d’essere e d’esistere: non si tratta più di scoprire, vivere e comunicare una condizione interiore, quello è accaduto da tempo ed è oramai subentrata la stagione della routine che ha lasciato alle spalle i fenomeni, le esperienze forti, gli stati contemplativi acuti.
Oggi si tratta di entrare nel dettaglio, nelle pieghe di un sentire diffuso, di una relazione unitaria feriale che non ripropone se stessa ma, nell’apparente similitudine degli stati, delle espereinze e dei concetti, scava in una direzione o in un’altra e, attraverso il dettaglio, la sfumatura, il piccolo particolare, crea un focalizzazione sempre nuova dell’esperienza interiore.
Questo post, come altri che l’hanno preceduto e lo seguiranno, sembra muoversi all’interno di un genere riflessivo ripetitivo ma, in realtà così non è: ogni volta che il tema dell’unità viene ripreso, un nuovo grado di uno stato è indagato, un livello di consapevolezza maggiore si rivela, un dettaglio nascosto si mostra con più chiarezza. Senza fine è la rivelazione della condizione unitaria ed essa non si svela nell’eclatanza del fatto ridondante, ma nella discrezione del dettaglio apparentemente irrilevante. Il riflettere, il descrivere tutto questo lo porta all’evidenza di chi scrive e vostra, lo rende fatto e, forse, comprensione maggiormente acquisita.
Il primo passo è la realizzazione di una lettura/interpretazione unitaria di sé. Cosa vuol dire?
Cogliere l’insieme di sé. Diviene possibile quando le spinte emozionali, i bisogni e la ricerca di senso e di spazio personale nell’esistenza si sono placati: allora lo sguardo abbraccia l’insieme di noi e il conflitto con il proprio limite e con l’immagine desiderata di sé, si quieta, perde la sua ragione d’essere.
Allora siamo persona, soggetto integrato e limitato, serena accoglienza per quel che la vita ci ha permesso di essere e per quello che abbiamo saputo di essa, e in essa, realizzare.
Nel mentre siamo indaffarati a costruirci una postazione nel mondo e una visione equilibrata e unitaria di noi stessi, misuriamo anche la distanza dall’altro, l’alterità come la prossimità.
Per prove ed errori, per esperienza dunque, arriviamo a comprendere la natura dell’altro, il suo presentarsi sulla nostra scena, il suo andare incontro a se stesso, la sua irriducibilità come la sua familiarità essendo egli veramente prossimo, condividendo con noi la sostanza dell’avventura dell’esistere e dell’essere.
Il secondo passo è il valicare il confine con l’altro cogliendone la prossimità esistenziale.
Il terzo passo è l’unificazione in Dio possibile nel momento in cui il soggetto diviene irrilevante, ovvero la interpretazione/narrazione di sé, della relazione con l’altro e col mondo non è più fondata sulla opposizione ma, per avvenuta comprensione, sull’integrazione resa possibile da una comunione di sentire e dall’esperienza conseguente della compassione.
Nell’intimo nostro viviamo l’integrazione dei vari piani della nostra umanità, dell’altro e del suo cammino esistenziale, del principio trascendente e fondante l’esistere.
Nell’intimo nostro avviene l’alchimia: non andiamo verso Dio, scopriamo la realtà dell’Assoluto nel ventre del nostro essere uomini non più prigionieri di noi stessi e del conflitto con l’altro da noi.
Non c’è una unificazione in Dio attraverso il movimento dell’umano che lo incontra, un umano che si fa sovra-umano, questa è una visione molto antropomorfica ed alquanto infantile basata sull’aggiungere invece che sul togliere: c’è lo svelarsi dell’unità costitutiva del Reale che diviene disponibile alla nostra esperienza nel momento in cui ci spogliamo della nostra pretesa di divenire altro da quel che siamo, da quel che è. L’anelito alla perfezione è la nostra malattia, la resa è la cura.
Quando sentiamo di essere separati, è per un limite di comprensione, non perché la separazione sia un fatto, un dato del reale.
Quando viviamo una sostanziale unità con l’Insieme, è perché è cambiata la nostra percezione/comprensione del Reale: Esso è sempre stato quello, mai è cambiato, ma noi non avevamo gli strumenti per coglierlo.
L’essere in Dio non è altro che lo scoprire l’originale natura del Reale, in sé banale: esiste solo Dio, mai divenuto altro da Sé. Ma, se esiste solo Dio, la logica vuole che tutto il resto sia di una esistenza illusoria, appaia essere, ma non sia.
La scoperta del Reale qui l’ho descritta attraverso la sequenza dei tre passi: ogni passo realizza una comprensione più vasta e dunque uno sguardo più chiaro sulla natura della vita e di ciò che esiste.
Alla fine non ci stupiamo nemmeno più: era da molto tempo evidente che tutto fosse Uno e che mai questa unità si fosse frammentata; i molti stupori e le molte meraviglie appartengono al passato, oggi lo sguardo è semplice e chiaro sull’evidenza dei fatti.
Avere compreso questo ha implicazioni molto vaste: la comprensione è unità tra intenzione ed azione e dunque è nel quotidiano, nell’esperienza feriale che “operiamo all’interno dell’essere di Dio”: essere e divenire debbono stare assieme.
In quell’operare, in quel sentire interno al procedere illusorio dei fatti, si mostra il limite ancora esistente nell’umano, non forte a sufficienza da intralciare il movimento e la percezione/consapevolezza di quella internità: la nota dell’unità prevale e sovrasta qualunque rumore di fondo persistente.
Questo è fondamentale: non c’è umano che non viva la consapevolezza del limite anche nell’unità sostanziale con l’Insieme, ma quella dissonanza non è di ostacolo e non impedisce la partecipazione alla sinfonia. È la testimonianza di un limite di comprensione ancora in atto, e come sarebbe possibile altrimenti essendo noi ancora qui, umani nella forma umana?
Essere-Insieme è ferialità: due esiste se è concepito, così pure il limite, ma se non è sorretto da convinzione non c’è due, né limite.
È l’adesione ad una convinzione, ad una comprensione limitata che genera il due, la separazione: se il limite non trova adesione, se non è supportato e alimentato da una convinzione, non c’è limite, c’è solo il reale, aspetto unitario dell’Assoluto Reale.
L’umano, aspetto illusorio del Reale, diviene limite all’interno di una scala gerarchica che va dal limitato al non limitato; ma se non c’è scala, se non si aderisce al paradigma della scala?
So bene quanto questo venga scodellato dalle menti e quanto sia equivoco il tema, ma non parlo di postulati mentali, bensì di acquisiti di sentire.
Ad un certo punto la questione, nel sentire, è semplice: c’è l’adesione al divenire oramai consumata e c’è quella all’essere, imprinting dell’origine, che si mostra nella sua chiarezza.
L’essere in Dio è solo una questione di consapevolezza. Esiste da sempre quella condizione, finché non si impone. OE21.5
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Sì, capisco bene ciò che scrive Catia…”…Tuttavia ci sono momenti in cui, non è che la mente prevale, ma si sente la necessità di esternare il Dio in noi (sempre che l’espressione sia corretta) per attingere a quell’unità. E’ come quando, per bisogno di chiarire un pensiero, non lo teniamo dentro ma cerchiamo di esprimerlo a parole….”
Grazie!
Grazie! Questo post e’ una “luce” che illumina il sentiero.
Questo articolo contiene la summa dell’insegnamento del Sentiero perchè ne snocciola la sostanza. L’ultimo capoverso riassume tutto l’argomento. Nel sentire si sperimenta che siamo in Dio. Possono essere momenti fugaci e duraturi ma si ha consapevolezza che non si può cercare Dio in un altrove perché tutto è in lui . Quando sentiamo di non essere più separati, come dice l’articolo, allora sperimentiamo l’unità. Tuttavia ci sono momenti in cui, non è che la mente prevale, ma si sente la necessità di esternare il Dio in noi (sempre che l’espressione sia corretta) per attingere a quell’unità. E’ come quando, per bisogno di chiarire un pensiero, non lo teniamo dentro ma cerchiamo di esprimerlo a parole.