Dice Maria B. commentando il post I piccoli fatti e il nostro modo di viverli: Mi rendo conto di vivere una specie di saturazione del fare, con un senso quasi fisico di nausea. La mente s’infrange nei tanti, troppi compiti di cui è spesso artefice. Ciò che resta è solo un grande desiderio di abbandono e leggerezza. Eppure se io arrivo a varcare il mio limite, a tirare troppo la corda, è per sfiducia che la vita provvederà comunque? In altre parole se io sono esausta e non mi concedo al fare, devo sperare che qualcuno preparerà la cena?
Si Maria, “se io arrivo a varcare il mio limite, a tirare troppo la corda, è per sfiducia che la vita provvederà comunque?“, è per sfiducia.
Non ti fidi abbastanza del processo che eventualmente vai ad innescare;
non ti fidi delle possibili reazioni di coloro che ti stanno attorno;
infine non sei disponibile veramente a rompere un equilibrio non sano forse perché ti mancano le energie per reggere l’intero processo, di certo non facile da gestire.
Quel che accade a te è condiviso da una quantità di persone, soprattutto in ambito domestico, ma anche in quello lavorativo: quando l’altro non fa la sua parte, o la fa parzialmente, la persona più responsabile, o con più capacità di vedere l’insieme delle incombenze, si carica sulle spalle l’intera responsabilità di ciò che va fatto pagandone le conseguenza in termini di stress e, a volte, giungendo fino a somatizzarne nel corpo il disagio.
Devo sperare che qualcuno preparerà la cena? Assolutamente sì, devi sperare che qualcuno prepari la cena e, se nessuno la prepara, non si mangia per un giorno, due giorni, tre giorni.
Senza problema e senza scrupolo alcuno, se si è compreso il proprio limite, se lo si rispetta e se si è chiesto agli altri di rispettarlo, se si rispettano gli altri e si offre loro la possibilità di fare meglio: vale per i figli, per i partner, per i colleghi di lavoro, per i datori di lavoro. Naturalmente se dal nostro provvedere dipende la salute di qualcuno, la cosa si pone in termini diversi: faremo quello che dobbiamo fare e anche quello che dovrebbe fare il collega e poi, nelle adeguate sedi, faremo presente la cosa comunicando con chiarezza che non persevereremo nel supplire alle carenze dell’altro, o del sistema.
Chiaramente, nella realtà familiare e lavorativa tutto questo va modulato negli infiniti modi possibili, ma il principio di fondo è che:
debbo rispettare il mio limite;
devi assumerti le tue responsabilità e, se non lo fai, io non ti coprirò, né ti scuserò, né ti permetterò di reiterare i tuoi comportamenti impunemente.
Le donne fanno due lavori: quello retribuito e quello di casa e questo non solo è riprovevole, è miserevole e accade perché esse ancora non hanno sviluppato la giusta consapevolezza e la giusta reazione ad uno stato non tollerabile.
Se vuoi cambiare la tua vita, cambiala! diceva Shifo del C.I., ed è proprio così: lascia le persone senza mangiare, senza lavare; lascia il collega senza quel servizio quando la sua richiesta non è mossa da una giusta intenzione e non avviene nell’ambito della correttezza; non parare le spalle a quel figlio che non fa fino in fonda la sua parte, opera per mettere ciascuno di fronte alle proprie responsabilità, così li aiuterai a crescere e a migliorare.
Così li amerai dell’unico amore vero, quello che libera te e l’altro da te. E libera perché ti conduce nel pieno esercizio della tua e dell’altrui umanità.
In alternativa, ti sarai sacrificata ma la tua fatica avrà fatto male a te e agli altri: la cosiddetta generosità, non di rado è solo la forma di un eccesso, di un non rispetto, di una abdicazione alla propria dignità.
L’amore vero non si può disgiungere dalla responsabilità, nostra e altrui: implica e chiede responsabilità, dedizione, rispetto.
Per fare questo, occorre che tu familiarizzi con il tuo diritto ad esserci e ad esistere, con la tua forza vitale e di sopravvivenza che va espressa, conservata e garantita ed anche con la tua aggressività.
Qui forse cade l’asino: non preparare la cena per giorni, non supplire alle carenze di un collega o di una organizzazione, implica una capacità di reggere i conflitti e quindi un uso appropriato della propria forza e disposizione aggressiva.
Bisogna avere la capacità di non essere buoni, perché la nozione di bontà, quella convenzionalmente intesa, è solo una narrazione delle menti: occorre rivendicare, affermare e, anche, imporre giustizia: bisogna insomma uscire dalla rappresentazione del buono per entrare in un altra un po’ più reale, un po’, almeno un po’, più vera.
Avrete notato che non ho mai detto: chiedi all’altro di cambiare! Perché? In primis perché sicuramente quello è il primo gesto che compiamo, quello che ci rimane in fondo più semplice: dietro ad una persona provata dalle responsabilità, c’è sempre una sequenza di tentativi di chiarimento, di cambiamento suggerito all’altro, di forzature e di conflitti già avvenuti.
Ad un certo punto è necessario divenire pienamente consapevoli che la sfida è innanzitutto per noi: cambiamo la nostra modalità, la nostra reazione, il nostro comportamento e rendiamoli rispettosi fino in fondo di noi. Il processo che andremo ad avviare impatterà sull’altro e lo metterà nella condizione di fare i conti con se stesso e di cambiare.
Novità dal Sentiero contemplativo: se vuoi, iscriviti alla community
Mi ritrovo in pieno nelle tue parole, i recenti avvenimenti della mia vita mi hanno mostrato la necessità di prendere coscienza di quanto esprimi con questo post, in particolare con queste parole:
“L’amore vero non si può disgiungere dalla responsabilità, nostra e altrui: implica e chiede responsabilità, dedizione, rispetto.
Per fare questo, occorre che tu familiarizzi con il tuo diritto ad esserci e ad esistere, con la tua forza vitale e di sopravvivenza che va espressa, conservata e garantita ed anche con la tua aggressività.”
Grazie.
Grazie!
… Tra le mille cose da fare prima di lasciare questo corpo: Una serata gogliardica con Samuele!! 😀 😀
Condivido il commento di Natascia, questo è il lavoro che ci toccherà in più di una vita ! I muri da abbattere sono tanti: quelli fatti di paura, quelli dei doveri e quelli dell’inerzia, solo per citarne alcuni. Chiaro è che si lavora sempre partendo da se. Grazie a tutti*
Oh! Ci sono anch’io eh, in questa “valle di lacrime”!
La paura di perdere: il controllo, la considerazione degli altri, il sentirsi all’altezza di determinati ruoli e responsabilità e quindi la propria autostima…
L’identificazione: con i propri ruoli e responsabilità, con l’etichetta sociale…
Il desiderio di mandare tutto e tutti a fanculo e tornare ad uno zero, resettare il sistema, andarsene.
Ma andarsene dove?
Nel classico atollo della Polinesia?
Forse abbiamo un porto di approdo assai più accessibile e sicuro, permanente: lo zero interiore.
Anche a questo porto si arriva però con disciplina, metodo, dedizione, quindi impegno. Spesso quindi ripiego su riposo, ricerca di appagamenti vari, cazzeggio, ecc. approdi impermanenti. IO (nel senso onomatopeico del raglio)
* certo che onomatopeico se l’ho azzeccata mi fa fare un gran figurone nei vostri confronti ed aumenta la mia autostima!
Ah!, certo Samu, solo il riuscire a pronunciare la parola dencia potere!
Proprio ieri ho riferito ai colleghi di lavoro le condizioni inderogabili che pongo per poter svolgere la funzione di coordinamento. Ho detto loro che ognuno dovrà svolgere un compito e che io non mi sostituirò a nessuno, come successo in passato. Adesso si tratta di passare dalle parole ai fatti!
Come dice Sandra, questo argomento tocca molti di noi. E’ il cantiere aperto con cui si apprende pian piano come definire il proprio confine e a superarlo. Non credo basti una vita! Buon lavoro a tutti.
Grazie Roberto! Guarda a caso mi ci ritrovo pienamente nelle parole e concetti qui scritti….in questo momento della mia vita ho proprio bisogno di perdere il controllo e di smettere di volere controllare tutto perché potrei davvero impazzire stavolta. Sono giunta al mio limite, lo sto vivendo e sono consapevole (?) che questa lotta può finire solo nella resa e FIDUCIA, quella fiducia che non ho mai avuto e che faccio fatica ad avere. Non è facile e mi sembra di non riuscire a cambiare anche se so che devo e posso cambiare….perché? Allora non ho realmente compreso?
Grazie Roberto, la tua lettura mi chiarisce e ricolloca nella giusta direzione. La gestione della
aggressività nel conflitto, l’abbandono del controllo sono le mie grandi officine esistenziali. Grazie anche a tutti voi cari compagni di viaggio
Bella riflessione…ho sempre pensato che se vuoi veramente aiutare una persona non bisogna dargli direttamente il pesce ma la canna da pesca!
Secondo me però bisognerebbe stare attenti a non passare con questi comportamenti dall’altra parte, devono essere comportamenti per “sbloccare” la situazione di stallo che si è creata con abitudini sbagliate concesse alle altre persone, fare un passo indietro dando sempre priorità al bene comune e non al bene individuale.
Grazie del pensiero condiviso.
Giiliano
Penso che siano parole in cui si ritrovano i più, forse tutti… dire dei no, dichiarare il proprio limite scatena paure dovute a condizionamenti di cui spesso non siamo consapevoli, ma che ci obbligano a reiterare in modo di fare e ci legano a varie identificazioni.
Grazie Roberto, anche qui c’è tanta roba x me!!!
Ciò che dice Maria e ciò che hai scritto mi interessa e mi tira in ballo.
“…. Quel che accade a te è condiviso da una quantità di persone, soprattutto in ambito domestico, ma anche in quello lavorativo: quando l’altro non fa la sua parte, o la fa parzialmente, la persona più responsabile, o con più capacità di vedere l’insieme delle incombenze, si carica sulle spalle l’intera responsabilità di ciò che va fatto pagandone le conseguenza in termini di stress e, a volte, giungendo fino a somatizzarne nel corpo il disagio.
Devo sperare che qualcuno preparerà la cena? Assolutamente sì, devi sperare che qualcuno prepari la cena e, se nessuno la prepara, non si mangia per un giorno, due giorni, tre giorni…”
Hai ragione, occorre avere fiducia che un nostro cambiamento innesca dei processi e, per quanto mi riguarda, occorre anche lasciare andare l’illusione di potere controllare tutto e che tutto sia “in ordine” secondo i nostri schemi. L’abbandono del controllo, per me, è una priorità…mi sa che dietro la difficoltà di abbandonarlo c’è tanta paura…e anche aspettative…
Grazie della riflessione!
Uno scritto veramente bello. Mi riempe la coscienza…
Io sono quell’asino! In questo momento della mia vita devo imparare a reggere i conflitti interiori che si possono creare dicendo un NO “positivo”.
Le parole sopra scritte mi sono di fondamentale imoprtanza, mi delineano una strada da percorrere che non riuscivo ad inquadrare correttamente.
Grazie Roberto.