Dice Natascia commentando il post Amare non è una esperienza fondata sul sentimento: Mi rendo conto che faccio fatica a comprendere fino in fondo qual’è il senso vero dell’amore ed è un tema su cui rifletto proprio in questi giorni. Per me si declina in compassione, accoglienza, mancanza di giudizio, ma è sempre così? E se questa mia modalità per alcune tipologie di persone può risultare non utile, se non addirittura dannosa? Non è nuovo questo tema per me, devo approfondirlo e capire perché la vita mi fa incontrare spesso con persone che mettono in crisi il mio modo di pormi in relazione.
La fusione è il frutto ultimo del processo del divenire: quando due sentire sono di medesima ampiezza si fondono e generano un nuovo sentire più ampio della somma di entrambi.
Quando due persone sono passate attraverso innumerevoli processi di macerazione e di trasformazione e, infine, vedono abbattersi le barriere che li separano, quello è il frutto del divenire, la fusione così come si realizza nell’ambito più propriamente umano.
Quando una persona vive senza confini e ci è giunta passando attraverso la conoscenza e la consapevolezza degli innumerevoli recinti che ha dovuto superare, quello è il frutto sano di un processo sano.
Quando una individualità giunge in una incarnazione non avendo la necessità di mettere confini, significa che in sé ha già risolto la questione io/tu e va avviandosi a sperimentare il noi libera dai condizionamenti: quella persona, in quella incarnazione, non avrà da dolersi perché non è riconosciuta, o rispettata, questi aspetti comuni a tanti non la toccheranno se non in modo marginale.
Quando una persona si trova a vivere senza un confine definito tra sé e l’altro da sé ed è capace di esprimere generosità, apertura, condivisione ma, nel contempo, patisce il non riconoscimento altrui, allora siamo in presenza non di una fusione, ma della necessità di meglio definire sé, l’altro da sé e la relazione che può intercorrere tra due soggetti che uno non sono.
Se noi andiamo a vedere, quella persona avrà difficoltà a far valere i propri diritti e ad esprimere la propria forza vitale/aggressività.
Nel post La sfiducia nella possibilità di cambiare la propria realtà ho già fatto rifermentato alla forza vitale e all’aggressività ponendole in stretta relazione, forse è meglio che spieghi brevemente: per forza vitale intendo quello spettro di forze, affermazioni e convinzioni che ci permettono di condurre a manifestazione la rappresentazione che definiamo la “nostra vita”.
L’aggressività è la capacità di veicolare quella forza, quel diritto ad esistere e a manifestarsi anche in presenza del diritto di un’altro, nell’eventuale conflitto con il diritto di un’altro.
In quest’ottica l’aggressività ha un’accezione positiva, è legata allo spirito di sopravvivenza e libera l’intimo diritto ad esserci, ad avere uno spazio e le condizioni per dire “io”.
Noi possiamo manifestare la forza vitale che ci anima e l’aggressività che ci sostiene nella relazione, quando non abbiamo paura, quando cioè il condizionamento derivante dal giudizio e dal senso di inadeguatezza non ci paralizza: se la paura, il timore di manifestarci per quel che siamo ha il sopravvento, ciò che ci attende è la depressione- implosione, o una vita di frustrazione e di insoddisfazione.
La persona che non ha costruito confini, perché non li ha costruiti? Perché è oltre nel sentire, o perché teme la loro edificazione?
Quella persona allora è prigioniera del suo non confine, come colei che li ha eretti troppo alti è prigioniera in altro modo ma con lo stesso risultato: entrambe non costruiscono vera ed autentica relazione perché non sono fondate sul libero fluire del loro essere persone.
La relazione è fondata sul confine, sull’essere due alterità: la relazione è la strada che la vita ha disegnato per costruire sé e per andare oltre sé: non si può saltare a piè pari nella fusione, bisogna passare per la relazione.
In una coppia, i due si innamorano e si sentono fusi; poi si conoscono e forse in alcuni momenti arrivano anche a detestarsi; se sopravvivono, domani si accorgeranno di essere non-due e, se ne avranno gli strumenti e il sentire, scopriranno anche che cosa significa essere Uno.
Ma i due sono passati per il deserto del perdersi, lì hanno scoperto il proprio e l’altrui confine, il proprio e l’altrui limite e hanno imparato ad andare oltre l’intolleranza e la protesta scoprendo infine l’accoglienza e con essa il superamento dell’io/tu.
Non sono saltati d’un balzo nell’accoglienza, hanno vissuto tutti i passaggi, hanno fatto dunque esperienza, sono divenuti consapevoli e, infine, hanno compreso.
La persona senza confine deve imparare a dire dei no, quando necessario; devi dire dei sì quando opportuno e non sempre; deve considerare che a volte, è bene per l’altro sentirsi dire un no e deve, pur desiderando dire un sì, affermare quel no necessario all’altro.
Quel sì che in cuor suo avrebbe detto, in realtà era frutto del suo egoismo, la via più facile con al centro sé stessa; dire quel no significa interrogarsi non su cosa si vuole, ma su cosa è necessario all’altro, qual’è il bene dell’altro.
Ecco allora che la persona senza confine può essere anche prigioniera di un certo grado di egoismo e di pigrizia che la porta a scegliere la via più facile per sé, non curandosi fino in fondo dell’ipotetico bene dell’altro. OE1.6
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devo leggere e rileggere………c ‘è da lavorare
il mio pane quotidiano
Grazie Robi. Avrò di che rimuginare!
…il cantiere è aperto….
Grazie Robi!