La vita oltre l’identificazione con il limite

Se rimaniamo identificati con una certa lettura di noi, con quello che riteniamo d’essere, siamo perduti.
Se trascorriamo i giorni, i mesi e gli anni ad ascoltare il rumore delle nostre identità, è come se mai ci affacciassimo fuori di casa posando lo sguardo sulla terra e sul cielo, sugli esseri e sui processi che li coinvolgono.
Il bilancio di una vita trascorsa ad occuparsi di sé è triste e, mi viene da dire, misero.
Occuparsi della trasformazione del proprio sentire, è quell’occuparsi di sé meschino?
Non direi. La vita altro non è che trasformazione del sentire degli esseri che la vivono, non è che la rappresentazione nel tempo e nello spazio degli innumerevoli gradi del sentire Assoluto.
L’occupazione meschina di sé è la coltivazione del proprio ombelico, del proprio tornaconto, del proprio punto di vista particolare: naturalmente, mentre affermo questo, nessuno di noi ammetterà di riconoscere e possedere quella meschinità in grado evidente.
La meschinità fa parte di quello che siamo e, in vario grado, ne siamo condizionati: chi molto poco, chi molto.
Chi vede il seme della meschinità poco sviluppato in sé, a maggior ragione ne è allarmato: risalta nello spazio non condizionato.
Ma non è di questo che voglio parlare.
La persona che persegue la trasformazione consapevole del proprio sentire, perché non è definibile come una che si occupa solo di sé?
Perché la trasformazione accade prevalentemente quando si vede, si scopre l’altro.
Ci si trasforma soprattutto grazie all’impatto che l’altro esercita nelle nostre vite: in un sistema chiuso, autoreferenziale, edonistico, l’altro è un’ombra fuggevole.
In un sistema aperto e disponibile alla conoscenza e alla consapevolezza, l’altro diviene l’attore principale, colui che ogni possibilità porta.
In un sistema di relazione così inteso, non c’è spazio per la centralità di sé pur lavorando dal mattino alla sera il proprio essere: è la relazione consapevole che ci schioda, ci estrae dal crogiolo degli umori, ci mostra il limite di comprensione senza che noi si possa indugiare nel lamento della vittima, o nel desiderio del frustrato, o nella brama del narciso.
Lavorare sé non è guardarsi l’ombelico, è aprirsi alla sferzata che l’altro porta e ferisce la nostra carne perché mostra il limite di fronte al quale non possiamo volgere lo sguardo.
Se veramente vogliamo imparare, non possiamo permetterci il lusso di indulgere nell’identificazione con il nostro limite: finiremmo per piangerci addosso essendo, nel piangere, ancora noi al centro.
Nel superare il vittimismo, e la centralità di sé che esso comporta, noi affermiamo un dinamismo, una creatività, una capacità di andare oltre la semplice portata di quel limite per scoprirne l’ampiezza esistenziale: dal piccolo e minuto, attraverso la consapevolezza e la lettura simbolica, passiamo a cogliere il vasto, l’esistenziale, e mentre facciamo questo non siamo il piccolo essere meschino ripiegato su di sé e sul proprio dolore, siamo l’umano degno di vivere una vita che lo rende altro da sé, oltre che pienamente sé.
Oltre l’identificazione con il limite c’è dunque un mondo molto vasto che parla ancora di noi, come dell’altro, ma, quando parla di noi, non lo fa sussurrando ad un bambino piagnucoloso: parla ad un adulto capace di non lasciarsi irretire dal proprio limite, capace di vedere il molto d’altro che è cresciuto in sé, in primis quella capacità di prendersi cura, di accudire, di provvedere ai bisogni di chi gli sta attorno. Se c’è, se è sorta.
Quando alziamo gli occhi, l’orizzonte si fa largo: non c’è solo colui che non ha compreso, c’è anche quell’essere che poco o molto ha compreso e lo conduce a manifestazione attraverso il pensare, il provare, l’agire tra sé e nella relazione con l’altro da sé.
Lo stato dell’arte si svela nella relazione: il piccolo sistema chiuso e meschino, e le sue tentazioni, si mostrano irreali non appena alziamo gli occhi.
Oltre noi accade il determinante che ci trasforma nel profondo solo se lo riconosciamo e se rinunciamo alla nostra centralità miope ed illusoria.


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natascia

E già! L’altro ci interpella, cerco di non dimenticarlo, ma a volte l’identificazione prevale e le emozioni emergono, con un certo tasso di vittimismo. Dura un po’, poi lo sguardo si fa più ampio ed emerge sempre più prevalente la compassione. In questa danza tra identificazione e lasciar cadere il velo della soggettività, si procede, a volta con fatica, a volta con leggerezza nel percorso della Vita. Profonda gratitudine a tutti voi.

Catia Belacchi

Quando nella relazione accetti l’altro come manifestazione dell’Assoluto esattamente come lo sei tu, quando impari faticosamente a lasciare fluire quel che accade e che magari non ti piace, dopo un po’ ti senti pervaso da un gran senso di pace e di compassione, ma come diceva una volta Marco in un post, può accadere che la mente si riaffacci subdola e “gongoli della tua bravura”. Il processo di non identificazione non ammette sosta.

Alessandro

Grazie!

Sandra

In questo momento la tentazione dell’identificazione è forte, la gravidanza anche per sua natura ti porta al corpo, alla difesa…in un richiamo ancestrale. Così il lavoro adesso, di non vedere solo il proprio ombelico, si fa più intensi, duro e interessante…

nadia

Come Samuele, questo post mi interpella. E’ oramai chiaro che l’altro è maestro, e più c’è attrito, maggiore è la richiesta di alzare lo sguardo. Non procediamo mai soli, nemmeno nel lavoro di trasformazione consapevole del proprio sentire. Il riverbero poi, di tale trasformazione, non è nuovamente una questione, che riguarda solo noi…per fortuna!
Grazie

Samuele D

Uffa però, proprio adesso che stavo in pace davanti al computer, con l’ombelico di fuori.
Va a finire che mi tocca uscire!
A parte gli scherzi, per me irrinunciabili, sento che il post parla di me e sento anche che una “comunità” ed un “faro” che sostengono e illuminano la via, sono di grande aiuto.
Grazie

Anna

La relazione consapevole….il fulcro per me in questo momento.
Grazie

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