Ciò che cerchiamo di dare, o di non dare, all’altro comunque parla sempre di noi.
Osservo con molta attenzione l’impulso a dare, come la paura di farlo: qui voglio parlare dell’attitudine interiore che porta alcuni a dare ripetutamente e con apparente naturalità.
Comunemente affermiamo che il dare, il prendersi cura, il sostenere siano espressioni dell’amore che ci muove e attraverso quelle disposizioni e quei gesti prende forma: può darsi che sia così, ma non sempre e non comunque.
L’altro ha bisogno di noi? Immagino che risponderete di sì, se non conoscete come funziona la realtà, la soggettività dei film personali, l’irriducibile ignoranza di cosa effettivamente l’altro stia vivendo nel suo presente a noi inaccessibile.
Nota: il lettore che non conosce l’elaborazione del Cerchio Firenze 77 sulla realtà soggettiva ed oggettiva, non potrà raccapezzarsi in questo ragionare che gli sembrerà delirante.
Se conoscete come funziona la realtà, allora la vostra risposta sarà: no, mai l’altro ha bisogno di me in quanto il tracciato esistenziale suo in nessun modo dipende dalle mie azioni e disposizioni, ma solo dal suo compreso e non compreso.
Mai l’altro soffrirà giustamente o ingiustamente a causa mia, ma, tutt’al più, io sarò comparsa nella sua scena che porta ciò che gli è esistenzialmente ed evolutivamente necessario. Ma anche di questo non sarò mai certo e mai saprò come l’altro utilizza il mio comparire nel suo film, sempre che quel comparire ci sia oltre l’illusorietà di quel che a me appare.
Premesso questo, rimane il fatto che tutte le volte che arreco danno al mio prossimo soffro, tutte le volte che non lo rispetto sento in me il disagio di aver sbagliato.
La relazione con l’altro, dunque, si sviluppa in modo tale da specchiare il mio limite, il mio egoismo, la mia non attenzione, il mio non rispetto, la mia non dedizione: nel relazionarmi con l’altro, vedo me. Così è fatta la realtà personale che nulla ha di oggettivo, eppure sempre ci mostra il limite di sentire.
La realtà manifesta sempre il sentire e, quando questo è limitato e condizionato, noi soffriamo: il soffrire ci induce a riprovare e a fare meglio, ovvero in maniera più altruistica, meno condizionata dalla preoccupazione di noi stessi.
Quando aiuto l’altro, aiuto chi? Creo la scena utile al mio specchiarmi.
Tutto il mio darmi da fare, il mio provvedere, soccorrere, curare altro che non è che una risposta ad un impulso che sorge nel mio interiore generato da un bisogno della coscienza di misurasi con il dare, di ricevere i dati che le necessitano e che può trarre solo attivando il suo attore in quel modo.
Quindi la scena del nostro dare è solo nostra e riverbera solo nel nostro piccolo mondo interiore: mai sapremo se in realtà, nella realtà dell’altro, il nostro aiuto è arrivato e ha prodotto qualcosa.
Allora, quando le persone fanno del dare, del donare al prossimo le loro esistenze il motivo stesso del loro vivere, in realtà per un’esistenza intera non stanno altro che misurandosi con il dare e questo, probabilmente, accade perché i dati acquisiti dalle loro coscienze ancora non sono sufficienti e, forse, l’insistenza è tanta e così prolungata e reiterata perché l’insegnamento è lungo e complesso, sostenuto verosimilmente da un karma che, magari, ha visto quelle stesse coscienze misurarsi, in una vita precedente, con un egoismo abbastanza marcato.
Se sul fronte del dare non c’è lezione particolare da apprendere, se il dare è sufficientemente interiorizzato e compreso, esso è naturale e sa alternare l’offrirsi e il ritrarsi, il dire si e il dire no.
Come tante volte abbiamo detto, amare non è dire si, non è soccorrere, non necessariamente.
A volte l’atto d’amore prende la forma del no, del rifiuto, del diniego, del tirarsi indietro.
Se noi pensiamo che il dare, l’occuparci dell’altro, il donarci ad una causa, ad un popolo o ad una persona, sia comunque una forma d’amore, incorriamo in un possibile errore: forse è un atto d’amore, come forse è solo un tentativo di imparare l’amore che da un suo deficit sorge.
Ci misuriamo con l’amore perché di esso non abbiamo compreso la natura e non riusciamo a praticarlo, a lasciare che ci attraversi e ci conduca senza essergli d’ostacolo. Ricordo che, nella nostra visione, l’amore è tale solo quando non è mosso dal bisogno personale del soggetto che lo attiva e ne viene attraversato.
Tutte le volte che debbo operare per l’altro, la mia prima valutazione è: è necessario questo all’altro, corrisponde al suo bene?
Posso sapere io qual è il bene dell’altro? No, non lo saprò mai, ma so che l’altro non è abbandonato a se stesso, so che la vita a lui provvede e, forse, questa volta lo fa attraverso me, o forse no.
Mai saprò di cosa ha bisogno l’altro, ma posso vedere di cosa ho bisogno io, posso lasciar morire il mio bisogno, osservare, lasciar decantare, ricordarmi di come funziona la vita ed, infine, lasciar sorgere il comportamento adatto a quel frangente.
Quando dite di no ad un figlio, non fate le stesse considerazioni?
Nel mio approcciarmi al bisogno dell’altro non parto da un’urgenza che mi chiama in causa; parto dalla consapevolezza che la vita provvede comunque ma, se quella scena si presenta a me, allora richiede una mia risposta che può essere affermativa o negativa, entrambe legittime.
A seconda di ciò che debbo comprendere, ciò con cui mi necessita di misurami nel sentire e nel non compreso, sarò sospinto a dire un si oppure un no, un sì o un no che possono avere molte diverse motivazioni e sfumature:
– posso aiutare perché aiutando imparo ad aiutare;
– posso aiutare perché è naturale che io aiuti;
– posso rifiutare l’aiuto e poi misurarmi con la funzione educativa del senso di colpa;
– posso rifiutare l’aiuto perché ritengo che sia bene che l’altro provveda da sé, poiché così si misurerà con un aspetto importante del vivere.
La conseguenza sarà comunque un alternarsi, l’inserirsi di una ritmicità nella mia intenzione e nel mio comportamento che conferirà al procedere un aspetto naturale, non compulsivo, non condizionato da un’urgenza, non sottoposto al dominio del sì, né a quello del no.
L’unilateralità di orientamento è sospetta: le persone che dicono sempre sì, suscitano profondi dubbi.
Può darsi che esse siano naturalmente inclini al dare, all’offrirsi, ma in quel “naturalmente” ci sta un mondo che può essere scoperto solo quando, ad esempio, quelle persone si astengono per un lungo periodo dalla loro disposizione: cosa accade allora in loro?
Come debbono imparare a leggersi in altro modo?
Come iniziano a vedere il mondo, se stessi e la propria funzione nel momento in cui non si schierano a priori dalla parte della vittima, o del presunto bisognoso?
Se tante persone hanno apparentemente bisogno, è perché tante persone hanno necessità di imparare a dare.
La persona che è in pace sul fronte del dare, ammesso che qualcuno possa essere in pace, come si comporterà?
Con naturalezza, con dei si e con dei no. E mai potrai prevedere quando sorge un sì e quando un no.
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Grazie Roberto!
Grazie
Grazie.
Grazie. Per me questo post è un invito a una maggiore introspezione e consapevolezza quando mi trovo in una delle situazioni sopra descritte.
“…mai l’altro ha bisogno di me in quanto il tracciato esistenziale suo in nessun modo dipende dalle mie azioni e disposizioni, ma solo dal suo compreso e non compreso.
Mai l’altro soffrirà giustamente o ingiustamente a causa mia, ma, tutt’al più, io sarò comparsa nella sua scena che porta ciò che gli è esistenzialmente ed evolutivamente necessario. Ma anche di questo non sarò mai certo e mai saprò come l’altro utilizza il mio comparire nel suo film, sempre che quel comparire ci sia oltre l’illusorietà di quel che a me appare.”.
Mi Chiedo quali siano i risvolti di tutto ciò in ambito educativo: come posso non influenzare con il mio comportamento un piccolo? È rassicurante pensare che comunque tutto serve alla sua evoluzione, ma ciò non deve frenare la spinta a migliorare dei comportamenti che avvertiamo inadeguati. Grazie
“A seconda di ciò che debbo comprendere, ciò con cui mi necessita di misurami nel sentire e nel non compreso, sarò sospinto a dire un si oppure un no, un sì o un no che possono avere molte diverse motivazioni e sfumature:
– posso aiutare perché aiutando imparo ad aiutare;
– posso aiutare perché è naturale che io aiuti;
– posso rifiutare l’aiuto e poi misurarmi con la funzione educativa del senso di colpa;
– posso rifiutare l’aiuto perché ritengo che sia bene che l’altro provveda da sé, poiché così si misurerà con un aspetto importante del vivere.”
La distinzione chiarisce molto bene aspetti che sto affrontando proprio in questo periodo. Posso vedere in me entrambe le possibilità sul fronte del sì, per certe cose dare è semplicemente naturale ed esso fluisce senza calcolo alcuno o spiegazione da parte della mente, per altre è evidente il processo di apprendimento, testimoniato da riluttanze iniziali oppure tentativi di giustificare l’atto del dare. Sul fronte del no, ho veramente molto da imparare e penso che la difficoltà a dire di no sia diffusa, perché sorge da varie paure, come ad esempio quella di essere giudicati o non accettati.
Grazie per questo post, come sempre illuminante.
Grazie per lo spunto.
Argomento complesso che mi ha indotto a lasciare un commento ( anche se non so bene se questa sia una forma di dare…).
Credo che questa danza fra dare e ricevere, essere nel proprio film e comparire nel film altrui, esporsi e ritrarsi agli impulsi della vita, sia senza fine per ogni essere umano. Personalmente cerco di non pestare i piedi ai compagni di danza e di seguire il ritmo, anche se spesso mi sembra di essere un orso che prova a ballare il tango.
Ascoltato.