“Per parlare a Dio non c’è altro da fare che leggere, ascoltare, ruminare e poi ridire a Dio tutto ciò che Lui ci ha detto, dopo aver trasfuso in quelle parole tutto il pensiero, tutto l’amore e tutta la vita. La parola di Dio diventa così il luogo e il mezzo dell’incontro con Lui. ” (M. Magrassi, La preghiera a Cluny e a Citeaux, pag. 640, in La preghiera nella bibbia e nella tradizione patristica e monastica, ed. Paoline)
Da Dio a Dio attraverso l’umano che risuona come uno strumento, questo è il percorso interno alla preghiera cristiana.
E in noi che non frequentiamo quella modalità, ma solo la contemplazione del reale?
Non viene il reale da Dio, non è aspetto del sentire di Dio, forse?
E, nell’ascolto, nell’osservazione, nello stare non ci attraversa, forse?
E quello stato di sentire che si realizza, non viene forse offerto, reso disponibile al Cosmo intero?
Il contemplante è uno strumento vuoto, una cassa di risonanza: egli accoglie il creato, vibra del creato, scompare nel creato e ciò che resta è sentire, vibrazione di sentire che nel Cosmo testimonia se stessa.
Il sentire domina la scena e, in quel dominio, ogni movimento da Dio a Dio è pura rappresentazione, in realtà c’è solo l’Essere che non diviene e non c’è alcun Dio che parla e a cui torna qualcosa non essendo mai stato il contemplante altro dalla sua origine.
Noi non possiamo dire di parlare con Dio, dal nostro punto di vista è un non senso, né possiamo riconoscere quella circolarità perché questa ci espelle da Dio, ci rende altro da Lui, interlocutore invece che Essere-che-tutto-è.
Non è semplice il nostro rapporto con l’Assoluto dovendo passare attraverso la realtà duale della mente e del linguaggio: siamo costretti, per comprensione conseguita, a rinunciare alla mente e ai suoi strumenti perché totalmente inadeguati alla condizione unitaria.
Essi possono preparare quella condizione, ma non possono compierla, sono anzi di ostacolo.
La condizione unitaria, il risiedere in Quel-che-è, azzera ogni contenuto cognitivo e si avvale del solo sentire; attenzione però a non peccare di superbia: l’esperienza dell’Essere sorge sempre da un processo nel divenire fatto di mente, emozione, azione e, nel momento in cui quell’esperienza si impianta, si afferma nel presente, spazza via tutto il duale che gli è stato terreno di coltura.
È come il cuculo che approfitta del lavoro della capinera che costruisce il nido, fatica e s’industria e poi arriva lui, il prepotente, butta fuori dal nido le uova della capinera e si insedia con le sue grosse uova e con il suo culone.
Vi sembra che questa immagine di sopraffazione mal si addica al dilagare del sentire? Allora non avete sperimentato abbastanza la devastazione che quel dilagare produce.
Che poi quella devastazione ci sia ben gradita, questa è un’altra faccenda, ma sempre devastazione dello spazio identitario è. Uno sconquasso. Molto dolce.
In realtà La parola di Dio diventa così il luogo e il mezzo dell’incontro con Lui, non significa altro che quella parola è fatto-che-accade e quindi è perfettamente assimilabile al nostro sperimentare: il fatto, la sua consapevolezza ed il nostro scomparire, affermano l’esperienza dell’Essere unitario.
I linguaggi sono differenti, l’esperienza è comune.
Il linguaggio cristiano ha codificato e “cristallizzato” l’esperienza interiore ed è ricco di espressioni simboliche, di parole chiave, di frasi evocative, di metafore ed allegorie che rappresentano quanto viene esperito: così è anche nelle altre tradizioni religiose, penso in particolare al buddismo che è quella che conosco meglio e da cui diverse nostre espressioni, simboli e concetti sono mutuati.
Rimane per noi complesso forgiare un linguaggio efficace che permetta di esprimere lo sperimentato senza voler ricorrere alla lingua plasmata da altri, essendo una lingua il veicolo efficace, nella sua parzialità, di un sentire: ciò che noi sperimentiamo, è ciò che l’umano ha sempre sperimentato nei millenni, almeno l’umano che si dedicava all’unificazione interiore, il monaco, ma il nostro tentativo sarebbe monco e riguarderebbe solo noi se non ci ponessimo il problema della trasmissione, della comunicazione dello sperimentato in una maniera adeguata al nostro sentire, al tempo in cui questo si incarna, agli interlocutori cui ci rivolgiamo.
Potete leggere i contenuti di questo sito alla luce di questa considerazione: stiamo cercando di maneggiare una esperienza interiore e di comunicarla così come ci è possibile, cercando simboli e linguaggi originali che parlino al mondo laico e che, non essendo direttamente identificabili con tradizioni spirituali specifiche, abbiamo un carattere di universalità.
Sappiamo bene di essere inadatti al compito, ma non sapremmo fare diversamente: ci è precluso il mondo simbolico cristiano, non perché non lo consociamo, ma perché non corrisponde al nostro sentire.
Non ci interessa di possedere il paradigma buddista, ma solo di coglierne alcuni aspetti funzionali al nostro procedere.
Non ci interessa nemmeno produrre una sintesi, un linguaggio sincretico frutto delle molte vie spirituali, anzi lo evitiamo con la massima cura; ci rimane l’unica via possibile:
– osservare la nostra esperienza nel duale e nell’unità;
– imparare, volta per volta, ad esprimerla, a comunicarla, a decodificarla sul piano della mente, rivestendola di emozione, facendola divenire veicolo di un sentire che s’impone e che guida il processo con forza, con determinazione, con autorità, a volte con “violenza”.
Cammino non facile, nel deserto: noi propugnamo un nuovo monachesimo, ovvero una radicalità di impegno e di dedizione alla via di unificazione interiore che non vuole essere alternativa al monachesimo delle religioni, ma vuole rispondere alla pressione dell’archetipo del monaco che alcuni di noi avvertono con chiarezza e con forza e che li conduce non nell’alveo del conosciuto, ma verso il deserto e lì li scaraventa e li lascia.
Guardiamo alla meditazione figlia dell’oriente e la reinterpretiamo cogliendone la sostanza; impariamo dalla preghiera cristiana, e la riformuliamo estraendone l’essenza: osserviamo la nostra esperienza, la confrontiamo con i nostri compagni di viaggio, così unici, così preziosi, così indispensabili e dall’esperienza della non appartenenza e dal deserto vediamo delinearsi i confini di un’oasi, la sembianza di un nuovo monachesimo adatto ai senza patria, ai senza religione, ai senza appartenenza.
A coloro che obbediscono all’archetipo del monaco, ma non alla forma che questo ha preso nella storia.
Continuerò questo ragionare nel post di domani.
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Questo post mi ha aiutata a rendere ancora più chiara la direzione, il senso del nostro procedere. Grazie.
Grazie
Grazie!
Ho letto attentamente per almeno due volte. Qualcosa credo di aver capito ma rispetto al post precedente questo mi rimane più lontano.
Grazie Roberto per la chiara esposizione.
Grazie per le riflessioni e per i chiarimenti circa la nostra direzione…
Io, in questo periodo, sono immersa nel “fare”…alla grande… un po’ per i doveri, e un po’ per la gratificazione che il “fare” mi regala.
Un cambiamento in me c’è stato, però: faccio ciò che c’è da fare e sto con chi c’è…senza cercare altro/altri… e ciò mi da’ una certa pace.
Spero che l’autunno e la diminuzione di sole e luce riportino in me la capacità / la necessità di fermarmi, di stare, di ascoltare e di fare silenzio…
Mi sento ancora di ringraziare tutti per la presenza e la compagnia in questi mesi estivi!
E’ vero che ” l’esperienza dell’Essere sorge sempre da un processo nel divenire fatto di mente, emozione, azione” e anche la preghiera cristiana nel suo dipanarsi in modo circolare attiene a questo aspetto. Man mano che la preghiera sgorga e il sentire evolve sorge un altro modo di pregare che è proprio del sentire: la contemplazione. Per quanto mi riguarda, spesso mi viene da utilizzare la prima, a vote la seconda ,altre volte sto nei fatti e basta. Bella e senz’altro adeguata la metafora del cuculo.
Grazie
Grazie innanzitutto.
Qua da me si sta ancora litigando tra capinera e cuculo credo! 🙂
Un “monachesimo senza patria”…molto interessante e chiaro! Grazie