Commenta Nadia al post Il mondo nuovo che costruiamo ogni giorno: Parole toccanti, oggi però non riesco a coglierne la piena portata. O meglio non riesco ad abbandonarmi a quel senso di fiducia a cui rimandano. So che il disegno non è utopistico, ma la strada per la realizzazione, è ancora molto, molto, molto lunga. Le gravi questioni internazionali attuali alimentano un senso d’impotenza. Anche se conosco il perché di certi accadimenti, e anche sapendo che io posso “lavorare” partendo da me, oggi sono inquieta. Probabilmente è l’identità che sa di non poter vedere quell’orizzonte a cui le parole rimandano, il motivo per cui non riesco a gioirne.
Se il mondo è un’immensa officina delle coscienze immerse nel divenire, fino a quando sarà abitato da individualità in apprendimento non vedrà realizzato quanto nel post descritto.
E siccome il mondo altro non è che il luogo, il teatro di una grande rappresentazione, del film illusorio delle coscienze che transitano da ego ad amore, questo teatro metterà sempre in scena il limite delle coscienze/individualità e dunque mai vedremo realizzato l’orizzonte descritto nel post in oggetto.
Quando queste coscienze non avranno più nulla da apprendere, e dunque quel mondo potrebbe realizzarsi, esso cesserà di essere perché la sua funzione non è quella di manifestare uno stato di perfezione, ma quella di rappresentare un processo di perfezionamento, di comprensione in divenire.
Dunque il paradiso in terra non ci sarà mai, perché quella di questo pianeta è una storia ad uso e consumo di chi impara, non di chi è arrivato.
Perché allora coscienze che da tempo hanno abbandonato la ruota delle nascite e delle morti, prospettano all’umano questo orizzonte utopico?
Per indicargli la via, per prospettargli l’orizzonte, l’approdo del suo illusorio procedere tra, e per mezzo, delle comprensioni.
Ti descrivo le bellezze di Firenze per indurti ad iniziare il viaggio che ti permetterà di raggiungerla e, come sarai prossimo ad essa, il tuo viaggio sarà finito.
La vita su questo pianeta, dunque in questa dimensione caratterizzata dalla prevalenza della relazione del corpo della coscienza con il corpo mentale, il corpo astrale e quello fisico, non ha lo scopo di manifestare la pienezza dell’essere, ma quello di dispiegare il processo che all’essere, e alla sua pienezza, conduce.
Dunque la vita su questo pianeta non è il fine, ma il mezzo. Il fine, la pienezza dell’essere, si realizzerà su altri piani, non su quello fisico.
Il primo di questi piani che vedranno realizzato un embrione di pienezza, sarà il piano akasico, o della coscienza: la pienezza definitiva esiste solo nell’Uno, dunque alla fine dell’illusorio processo del divenire, del duale, dell’Uno che diviene due.
La pienezza definitiva può realizzarsi ora, e in effetti si realizza ora, oltre l’illusorietà del tempo, per coloro che del tempo e del suo divenire non sono prigionieri.
Come sapete, a me non piacciono gli assoluti, e quindi anche le parole del Cerchio Ifior che prefigurano il completamento del procedere umano, non mi suscitano particolare emozione: a me, del divenire, interessano i processi e il tratteggiare per rapide pennellate l’orizzonte di fondo. Oppure la condizione definitiva che sorge dalla contemplazione.
Penso che, nell’ordinario dei giorni, l’attenzione debba essere posta sul processo: la persona che è guidata da un grado di sentire 2, deve avere un’immagine di massima del grado 10, ma la sua attenzione deve essere concentrata sul grado 3, quello ad essa più prossimo.
La persona di grado 2 davanti al grado 10, è umiliata, davanti al grado 3, stimolata.
Dove andrà il mondo? Dove lo portano le coscienze che lo abitano.
Dove andiamo noi? Dove tutti i giorni ci permettiamo di andare.
Dove risiedo io ad ogni respiro? Dove Nadia? Dove tu?
Il nostro fine è cambiare il mondo? E perché mai? Il mondo è lo specchio dei sentire che lo popolano e dunque non può essere sbagliato, è, attimo dopo attimo, lo specchio fedele del mutare delle comprensioni: esso è quello che è, in sé immagine perfetta di condizioni relative di sentire. Dunque potremmo parlare di perfezione relativa anche se noi, di norma, preferiamo dire che il mondo è semplicemente quel-che-è. Oggi useremo l’espressione perfezione relativa per urticare le vostre menti.
Il dolore è perfetto, la gioia è perfetta, perché? Perché sono-quel-che-sono, sono quel che possono essere, ogni essere esprime il dolore e la gioia che gli sono possibili e accessibili, non un grado di più, non uno di meno, quindi, certo, la perfezione che esprime è relativa al sentire conseguito, essendo la perfezione assoluta prerogativa dell’Assoluto.
Allora qual è il nostro fine? Osservarci, conoscerci, divenire consapevoli del dove e come risiediamo; affrontare il divenire quando ci serve affrontarlo; abbandonare il divenire quando l’essere si afferma. Tenere assieme tutto questo nella ferialità dei giorni, senza fatica particolare.
Se noi, nel Sentiero, ci focalizzassimo sul desiderio di un mondo nuovo, se coltivassimo quell’aspirazione, se lottassimo per realizzarla, siamo convinti che recheremmo un servizio a noi stessi e all’umanità? O il servizio maggiore che arrechiamo a tutti è quello di essere e divenire intimamente liberi dal condizionamento, di qualunque natura esso sia? Compreso dunque il condizionamento di cambiare, vera logica che ci devasta e ci inchioda al divenire.
Il contemplante sa, conosce per esperienza diretta, la trappola del divenire: la conosce perché vede e sperimenta oltre lo scorrere dei fotogrammi.
Egli sa che la realtà è immobile, di quella immobilità che possiamo attribuire solo all’Assoluto; sa che nessun essere è limitato e non c’è alcuno che divenga da questo a quello. Egli sa distinguere il grano dalla pula, il reale dall’illusione.
Il desiderio di un nuovo mondo ci scaraventa completamente nel divenire e ci fa perdere la consapevolezza della realtà della sua perfezione relativa da un lato, e della sua illusorietà, dall’altro.
È un desiderio buono e sano in sé, se inquadrato in una visione complessiva dei processi; diviene una brama illusoria se di quei processi non conosce la natura.
La sguardo equanime sul processo di trasformazione del sentire, e la sua contemplazione, ci permettono di coltivare una duplice visione:
– le esperienze producono una trasformazione in quel sentire, se seguiamo la linea del divenire;
– le esperienze sono quel che sono e non producono proprio niente, se apriamo gli occhi sul punto dell’essere.
Siamo capaci nel nostro quotidiano di tenere assieme questi opposti apparentemente inconciliabili?
E siamo sicuri che siano inconciliabili?
Se noi consideriamo che solo illusoriamente il sentire diviene, l’unica realtà vera è quella dell’essere-che-è.
Siamo pronti per questa follia? Abbiamo una percezione e un’esperienza dell’essere-che-non-diviene?
O siamo completamente immersi nell’identificazione con il limite che diviene?
E che senso ha parlare di essere a persone che si impastano nel divenire?
Mostrare loro il processo e lo stare, è la mia risposta: la direzione del processo e l’assenza di processo, simultaneamente, facendone persone capaci di una lettura complessa del reale, non bambini erranti ed eterni.
È una prospettiva adatta a coloro che possono presentarsi su questo abisso.
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Tutto molto più chiaro. Grazie.
*-E’ tutto chiaro anche per me, grazie Ro
Scusa Robi l’impertinenza, ma leggendo il post mi è venuto in mente il dilemma di sempre:”to be or not to be that is the question”. Forse è banale o scontato, non saprei, ma queste parole mi risuonano come “essere o divenire”. Forse non centra molto con la discussione al post, ma credo che i concetti di cui trattiamo ora, non siano così lontani dal dubbio amletico. Inoltre Shakespeare sosteneva che la vita, altro non è che che una grande rappresentazione ed il mondo un grande palcoscenico. Forse non era poi così lontano dalla nostra visione.
Perfezione relativa, certo, quant’è importante prenderne coscienza per rasserenare la visione e nello stesso tempo mantenere chiaro lo sguardo sul limite, sapendolo illusorio… Cade il giudizio, cade la lamentela, cade il senso di impotenza, la frustrazione, il vittimismo… fiorisce la compassione…
Mi sembra tutto chiaro, grazie Roberto.