Luca 14,26-27 26 «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita, non può essere mio discepolo. 27 E chi non porta la sua croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Difficile dare una interpretazione univoca di queste parole del Cristo, molte sono le interpretazioni possibili ed immagino che diverse di esse siano legittime.
Nella lettura che darò qui, l’odio per il padre, la madre, i figli, i fratelli e la propria stessa vita è interpretato come la loro subalternità a ciò che è centrale nella vita del discepolo, ovvero la sequela del maestro e dunque della via interiore, perché mi sembra chiaro che, in questa visione, maestro e via coincidano.
È fuor di dubbio che noi mai ci saremmo espressi in termini così radicali, ma se quelle parole sono state proferite evidentemente avevano un senso nel loro contesto e non spetta a noi il disconoscerle, ma certamente non ci spetta nemmeno il ripeterle senza discernimento e senza verificare se nel nostro procedere esistenziale hanno un senso.
Esse sottendono una visione radicale della sequela e del discepolato che noi non abbiamo, molto diversa è la strada che andiamo tracciando.
1- Preferiamo parlare di monaco piuttosto che di discepolo, non essendo noi discepoli di alcuno ed aderendo invece alla chiamata interiore dell’archetipo del monaco, ovvero di quella forza che orienta e realizza l’unificazione interiore.
2-Per noi non esiste la necessità né di “odiare” le persone care, né di abbandonare la casa e gli affetti, anzi, riteniamo sia indispensabile coltivare la prima delle officine esistenziali che la vita ci presenta, la famiglia e, assieme ad essa, il lavoro e tutte le relazioni che ci permettono di conoscerci.
3- Il monaco, nella nostra visione, non è colui che si ritira dal mondo, scelta che rispettiamo ma che in alcun modo alimentiamo, ma è colui che sa guardare con i giusti occhi a ciò che il mondo simboleggia.
4- Nella nostra comprensione, il processo di unificazione con l’Assoluto ha bisogno di una dedizione radicale che si realizza nel quotidiano feriale, immersi nelle relazioni e non in una “vita dedicata a Dio” espressione sulla cui fragilità avremmo molto da dire.
Il quotidiano e l’altro sono, nella nostra comprensione, la via a Dio: l’estrarsi dalla banalità dei giorni e delle relazioni per dedicarsi alla ricerca di Dio, è quanto di più opinabile essendo quella banalità e quelle relazioni il volto e l’anima di Dio.
5- Prioritaria è, nella nostra concezione della dimensione esistenziale del monaco, la sua dedizione alla via interiore e non perché essa sia più importante della famiglia, del lavoro, degli affetti, ma perché essa è gli occhi per vedere la famiglia, il lavoro, gli affetti.
6- Il monaco non segue la via della sequela del Maestro, il monaco segue la via della vita, prima, ultima ed unica maestra di cui, eventualmente, il maestro è strumento, piccolo e irrilevante servitore.
7- Il monaco tiene assieme tutto ciò che la vita gli ha donato e, tra questo, vede la centralità e la preminenza della via, sa che essa deve custodire perché rappresenta i suoi occhi, la sua mente e il suo cuore, ovvero tutto ciò con cui guarda al suo e all’altrui esistere e la possibilità di interpretarlo secondo criteri non egocentrici, non soffocati dal proprio limite percettivo e interpretativo.
Il monaco sa che quella via, così fondante il proprio incedere esistenziale, è viva e vitale perché è condivisa con altri compagni di viaggio che ne condividono il respiro e l’orizzonte e nel momento in cui la riconosce come fulcro del proprio esistere, investe le proprie energie e la propria dedizione per far vivere ed alimentare il processo della comunità monastica alla quale appartiene, essendo questa la sua casa nel sentire, l’isola di sentire alla quale torna ogni volta che si perde, la fonte della sua ispirazione e del suo discernimento.
Senza la comunità il monaco è solo come la pianta senza terra, e solamente l’illuso, o il presuntuoso, possono pensare di andare incontro alla pienezza della propria umanità e al suo superamento verso l’abisso del Niente, da soli, senza la piattaforma di un sentire condiviso sulla quale appoggiare.
Il monaco che vive secondo questi principi, che non aderisce ad una religione, ad una famiglia religiosa, ad una regola, ad un mondo e ad una tradizione, è solo, profondamente solo nel perseguire il processo di unificazione interiore:
vive in famiglia, nel lavoro, nella compagnia o nella solitudine il suo incessante ritorno a zero, il rinnovarsi senza fine del processo della conoscenza, della consapevolezza, della comprensione immerso nelle relazioni e traendo da esse la loro vera essenza esistenziale: l’insegnamento che portano ad ogni occasione svelandolo, mettendolo in scacco, proponendogli uno sviluppo, permettendogli di vedersi, di conoscersi e infine di comprendere il limite che marca e di superarlo.
Questo monaco non è un ricercatore, non è un dilettante del fine settimana, è una persona che onora gli occhi nuovi, la mente nuova e il cuore nuovo che ha visto sorgergli nell’interiore:
– la sua famiglia, il suo lavoro i suoi affetti sono l’officina in cui verifica il compreso e approccia il non compreso e ad essi si dedica come alla più preziosa delle fonti di conoscenza e di comprensione;
– la sua comunità è l’ambito in cui incontra fratelli e sorelle che affrontano il suo stesso cammino e le sue stesse difficoltà: con essi si confida, da essi tre forza, con essi costruisce una base comune di sentire che alimenta il vivere di ciascuno oltre la solitudine dei propri apprendimenti e del proprio procedere.
Ad essi dedica una attenzione che non è secondaria a quella riservata alla famiglia e alla vita ordinaria e quotidiana: attraverso una alchimia interiore, sa tenere assieme due priorità e dare a ciascuna il necessario.
Mai la comunità gli chiederà di sacrificare la propria vita, sempre lo sfiderà alla generosità, al darsi, alla gratuità, al vivere senza risparmiarsi e ciò che gli proporrà come pratica, come responsabilità comunitaria sarà sempre, ampiamente, alla sua portata sfidandolo quel tanto che gli serve affinché non si sieda sull’acquisito, sempre rammentando che la tiepidezza interiore prepara l’oblio della via.
Novità dal Sentiero contemplativo: se vuoi, iscriviti alla community
Grazie mille
Estremamente chiaro. Grazie
“Prioritaria è, nella nostra concezione della dimensione esistenziale del monaco, la sua dedizione alla via interiore e non perché essa sia più importante della famiglia, del lavoro, degli affetti, ma perché essa è gli occhi per vedere la famiglia, il lavoro, gli affetti”. Cosa altro aggiungere ? grazie
“…vive in famiglia, nel lavoro, nella compagnia o nella solitudine il suo incessante ritorno a zero, il rinnovarsi senza fine del processo della conoscenza, della consapevolezza, della comprensione immerso nelle relazioni e traendo da esse la loro vera essenza esistenziale…”
Ho riletto il post e ci riconosco una grande chiarezza circa la figura del “monaco” e circa la “via” sulla quale siamo. Condivido ed abbraccio tutto il contenuto, compresa l’importanza di percorrere il cammino con altri fratelli/sorelle, che sostengono e condividono…
È un cammino in solitudine ma anche un cammino di libertà dai condizionamenti. E ciò crea grandi aperture alla nostra indagine .
Un po’ assente in questi giorni, piccoli problemi di salute…tutto chiaro Roberto, sento che è così e avverto tutto con molta autenticità!
Grazie.
Chiara esposizione del nostro cammino. Particolarmente utile questa lettura in un momento in cui ho a che fare con tante persone. La lunga esposizione al confronto con tanti modi di sentire diversi, mi ha un po’destabilizzata. La frenesia del lavoro in questo inizio d’anno scolastico, unito all’impegno al sindacato, mi hanno portato ad un sovraccarico sul piano mentale incentrato sul fare, tralasciando la possibilità di coltivare quello sguardo sul presente, indispensabile per mantenere vigile l’attenzione su ciò che c’è, senza aggiunte della mente egoica: “…ovvero tutto ciò con cui guarda al suo e all’altrui esistere e la possibilità di interpretarlo secondo criteri non egocentrici, non soffocati dal proprio limite percettivo e interpretativo.”. Grazie.
“…sfidandolo quel tanto che gli serve affinché non si sieda sull’acquisito…” uscire dalla zona di comfort, direbbe una persona che conosco
Si fa sul serio ma con leggerezza!
Grazie per sollecitare sempre le nostre riflessioni, in particolare su questo aspetto del nostro percorso che ora sta maturando.
L’interpretazione esposta di questo brano evangelico corrisponde a quella suggerita dal mio sentire da lunga data, ben prima che conoscessi il Sentiero. Mi era stata illuminante in gioventù la lettura de “L’arte di amare” di E. Fromm, per il quale l’Amore deve occupare il centro esistenziale della persona, non l’oggetto amato. Amare l’Amore la sentivo espressione esistenzialmente vitale, declinazione dell’amore per Cristo che invece di per sé mi lasciava perplesso, troppo a rischio astrazione e fughe mentali.
Grazie!