Continuo la riflessione iniziata nel post: La differenza tra il ringraziare e l’essere quel grazie.
Premessa: non possiamo educare la mente al pensiero unitario se il sentire non ha il gusto grado di comprensioni maturato.
L’educare è primariamente un facilitare l’emersione di ciò che già è contenuto nel sentire e, secondariamente, è un plasmare i veicoli, e l’identità che da essi risulta, affinché quell’emergere non solo non incontri una opposizione, ma sia veicolato da strumenti idonei a condurlo a piena manifestazione.
Se il sentire è maturo, allora l’opera può essere perseguita:
– accorgendosi di tutte le volte che esiste un io e un tu;
– vedendo il privilegio che si accorda al particolare invece che al generale, all’unitario; come non si riesca a tenere assieme i due;
– osservando come l’identità trae sostanza dal processo duale, si definisce e si costituisce e così alimenta nuova frantumazione;
Infinite volte esiste un io/tu: è superabile questo essere nella morsa del due, degli apparenti opposti?
O guardo la realtà dal mio punto di vista, o dal tuo? Ma può esserci un punto focale, un livello di consapevolezza che non privilegi me, o te? Che non accenti il me, o il te?
Esiste la possibilità di focalizzare la consapevolezza, l’attenzione, la presenza oltre me, o te? Certo, mettendo al centro i fatti come esperienza sensoriale, come percezione dei sensi dei vari corpi e come ascolto del sentire.
Quando la mente dice: “O il tuo punto di vista, o il mio!” la educhiamo, attraverso un costante e reiterato ritorno a zero, a stare sul fatto, ovvero ad uscire dall’ambito del suo dominio dove tutto viene separato ed attribuito a qualcuno; la disconettiamo quindi e portiamo, con un atto di volontà, la consapevolezza sulle sensazioni.
Si tratta di imparare a governare un processo: normalmente la mente scorrazza dove e quando vuole, in questo caso invece essa diviene subalterna ad un processo di consapevolezza e di volontà governato da ciò che l’Io ha compreso attraverso l’esperienza e un adeguato allenamento.
Nei fatti, non si tratta tanto di educare la mente, quanto di governarla: il fattore di governo è l’Io, l’immagine/interpretazione che di noi siamo in grado di produrre; se l’Io ha compreso la necessità di governare i processi, imparerà a governarli utilizzando lo strumento della volontà.
Deve dunque evolvere la visione dell’Io che, da colui che subisce i processi assecondando le brame, diviene colui che li governa.
C’è quindi un lavoro di autoeducazione da compiere: partendo dalla consapevolezza della prigione duale, si sposta progressivamente la visione oltre l’io/tu, la si appoggia sui fatti e sui processi e infine sul sentire.
In questa luce potete comprendere le molte pratiche che noi attuiamo durante i nostri intensivi, tutte tese a creare una disciplina conscia e inconscia, un livello di consapevolezza alto, una capacità di disconnessione rapida: l’obbiettivo è dare alle identità, agli Io, una possibilità di esperienza e di pratica che poi nel quotidiano feriale tornerà come automatismo.
È necessario che le identità vivano l’intero processo che dall’identificazione conduce allo zero: vivendolo ripetutamente, anche quando sono esauste, lo interiorizzeranno; naturalmente questo nei limiti del ragionevole, perché un alto livello di stress diviene controproducente, mentre un livello contenuto aiuta il processo e con esso la capacità di disciplinarlo.
Vedere il privilegio che si accorda al particolare invece che al generale
Salire sul monte oltre il limitato sguardo e bisogno personale: di cosa hai bisogno tu? Di cosa hanno bisogno le moltitudini? Di cosa il Pianeta?
Vedere il bisogno proprio; vedere il bisogno generale; integrare il bisogno proprio in quello generale a volte limando qualcosa del primo, altre volte essendo più audaci.
Di norma viviamo chiusi nell’isolato dei nostri desideri, nel piccolo cosmo dei nostri interessi: fuori c’è l’universo mondo che non riusciamo a intercettare, e molte volte nemmeno ci interessa farlo.
Eppure è un esercizio fondamentale: dal piccolo all’insieme; da me a noi; dal mio particolare al respiro del mondo.
Come si opera questo passaggio? Con l’indagine, con l’apertura, con una sana ricerca delle fonti mossa da un’altrettanta sana curiosità.
Le fonti sono le mille voci, alcune delle quali posso decidere di ascoltare; sono i mille sguardi, alcuni dei quali scelgo di indagare.
Dopo non sarò più lo stesso, dopo in me quelle voci e quegli sguardi vivranno e vibreranno e dal piccolo sarò passato al grande, vasto ed unitario senza fatica alcuna, solo perché è naturale farlo.
Questa è la ragione per cui, ad esempio, ogni tanto vi propongo dei video di persone, monaci in particolare, che vivono scelte radicali: voglio che affondiate lo sguardo, che leggiate le sfumature, che entriate in quelle vite e nelle loro ore: alla fine sarete diversi e migliori, più vasti, più unitari nella visione e nella percezione.
Osservare come l’identità trae sostanza dal processo duale
Il duale è il pane della mente e dell’identità, l’Io si forma nella separazione e nella differenziazione: possiamo creare un’identità sana alimentandola di unitario?
Si, ad un certo punto, si: una identità leggera, piuttosto trasparente, per tanti versi inconsistente, quella che è frutto di un buon grado di comprensioni e permane nella rappresentazione delle nostre vite senza essere di particolare intralcio, divenendo interfaccia funzionale nelle relazioni, piccolo abito senza pretese eccessive.
Per arrivare lì bisogna essere passati per i due stadi sopra descritti:
bisogna aver visto l’io/tu operare;
bisogna aver allargato l’orizzonte includendo il vasto nel piccolo orizzonte personale.
C’è una gioia intima nel vivere in maniera unitaria, oltre la separazione: è una gioia che attraversa tutti i corpi e fa splendere il nostro vivere e la percezione che abbiamo di esso.
Quella gioia, quella pienezza diviene il modo in cui ci vediamo, l’immagine che abbiamo di noi, il nostro Io e, dunque, quello che proiettiamo nelle relazioni.
Pian piano, abbiamo integrato il mondo nel nostro piccolo cosmo, abbiamo imparato ad osservare, ascoltare e contemplare la realtà nel suo insieme, non più separata dalla nostra personale, abbiamo visto e vissuto il particolare nel generale, nell’unitario: nel sentire questo ha trovato compimento e nell’Io, che del sentire è riflesso, si è specchiato.
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Comprendo quanto esposto nel post e comprendo le osservazioni relative. Per quanto mi riguarda posso dire questo. Finchè si è strattonati dagli avvenimenti tornare all’unitarietà è una esigenza imprescindibile e il ritorno a zero una esigenza di sopravvivenza. Quando l’impatto con gli accadimenti esterni è meno impellente l’attenzione può allentarsi così come l’automatismo del ritorno a zero. La vigilanza dunque non deve cessare mai.
Natascia penso che quello che tu dici sia estremamente vero, e’ un lavoro a mio avviso che non finisce mai per nessuno, una continua alternanza. Questa consapevolezza alimenta la fiducia…. e per me che in questo momento ci sto sbattendo il naso viene di grande aiuto questo parlare.
Grazie
Così come Natascia anche per me sono giorni complessi. E’ in atto un processo per cui devo stare attenta! Mi rendo conto che il punto di vista, la separazione sono sempre dietro l’angolo, la vigilanza e il “giusto sforzo” devono essere costanti.
Giorni complessi questi. Pur riconoscendo la verità di ciò che scrivi Robi, mi accorgo che non mi è sempre facile avere lo sguardo unitario di cui parli. Mi accorgo che la gioia intima che viviamo, quando non siamo separati è un momento di grazia, non sempre ripetibile, tutt’altro. Si alternano momenti di pienezza e momenti di sconforto e solo la volontà e la fiducia permettono di non abbandonarsi all’avvilimento. Educare la mente alla visione unitaria, focalizzando la percezione sensoriale aiuta. Esercizio e consapevolezza. Un lavoro che per me, non è mai finito.