Scrivo ad un fratello nel cammino e alla sua famiglia, nel mentre attraversano una seria difficoltà; forse queste parole avranno senso anche per altri a cui la vita riserva la sfida del dolore.
La vita, fino ad oggi, mi ha risparmiato quello che state attraversando: quando un figlio è minacciato nella sua possibilità, nel suo diritto ad un futuro così come ci sembrava gli spettasse, un genitore si sente perduto, scaraventato nell’assurdo del non senso e dell’ingiusto.
Il dolore è difficile da reggere, la mente è in preda all’angoscia e disegna scenari di cui nulla può sapere, ma che appoggiano su ciò che la scienza dice, su ciò che in passato è accaduto ad altri.
Scrivo queste parole per farvi sentire la vicinanza della comunità e la mia personale, non ho la pretesa di esservi d’aiuto e, semmai queste parole servano a qualcosa, il merito va al compreso che risiede in ciascuno di noi, in voi per primi.
Voi sapete che una malattia è un segno, un simbolo: parla alla persona che ne è affetta, le dice qualcosa di sé, del proprio cammino esistenziale.
A volte quel parlare è un urlo, qualcosa che impatta in modo duro ed ultimativo e sembra travolgere chi lo subisce, chi risuona a quel grido.
Allo stesso tempo, il simbolo parla a coloro che sono vicini a quella persona e, scuotendo le loro vite, le loro certezze come le loro insicurezze li interroga, li mette in scacco, li costringe ad una lettura più profonda della loro ribellione e del loro dolore.
La prime inevitabili reazioni di tutti i protagonisti, sono il disorientamento, la ribellione e il dolore: una vita viene minacciata, un “non è giusto” viene pronunciato, un dolore ci assale e ci pervade perché è troppo per noi, troppo grande il cambiamento di prospettiva che ci viene proposto, troppo ingiusta, irreale, immotivata la scena.
In questi giorni, man mano che il primo impatto lascerà spazio ad un processo più complesso, è importante governare la mente, la lettura che l’identità dà degli eventi: alla ribellione segue la valutazione dei dati e la coltivazione di un pensiero che a volte inclina paurosamente verso il negativo, altre trova elementi di speranza e di fiducia per poi essere di nuovo travolto dall’angoscia.
È evidente che non c’è una ricetta buona per tutte le persone che attraversano queste situazioni, ma è anche evidente che ci sono disposizioni che non è utile coltivare.
♦ Non è utile coltivare il dolore, né alimentarlo prefigurando scenari che sono totalmente oltre il nostro controllo: chi è in grado di dire come evolverà il simbolo lungo il suo cammino esistenziale?
La mente lo sa? I medici lo sanno? Chi è in grado di predire il futuro esistenziale di una creatura? Nessuno, e allora stiamo su dati che abbiamo, sulla vita che c’è e che ci interroga.
Stiamo sulla vita che c’è, non sulla fine di questa possibile.
La vita è fatta di relazioni, di accudimenti, di preoccupazioni, di sollecitudini, di timori, di piccole e minute cose: stiamo su quello che abbiamo e non permettiamo alla mente di muoversi verso ciò che non conosce; stiamo su questo presente sapendolo senza tempo; stiamo su ogni momento di vita, su ogni sensazione, su ogni affetto, su ogni accadere intimo a noi e all’altro.
Stiamo saldamente assisi sulla vita che c’è e che si dichiara, non sul pensiero della sua possibile fine in questa forma.
La malattia è un segno della vita, non della sua fine, e della vita parla, della vita esistenziale, del suo incedere.
Il mondo che la mente prefigura è irreale, non esiste nell’oggi e noi nulla sapremo mai del domani.
Attenzione, quando affermo che il dolore non va coltivato, non voglio intendere che non va provato: una cosa è il provare dolore in una simile situazione, un altro è alimentarlo con il circuito pensiero/emozione/pensiero.
♦ Come non è utile coltivare il dolore, così è di discutibile utilità coltivare nel pensiero l’illusione, questo per la semplice ragione che nel primo come nel secondo caso si rimane nella morsa pensiero/emozione, morsa dalla quale è invece necessario uscire rapidamente.
Il dolore e l’illusione risiedono nella mente ed essa non va alimentata: è buona pratica tornare incessantemente alle sensazioni che ci giungono dai sensi, ai dati del reale presente, a quel che è attimo dopo attimo; più saremo capaci di stare in ogni accadere, più la mente diverrà neutrale e si estrarrà dalla coltivazione dell’angoscia, come da quella della illusione.
♦ È necessario avere chiara la distinzione tra speranza e fiducia: l’identità spera che tutto evolva per il meglio, e fonda la sua speranza sul desiderio, su di un elemento che la costituisce e la caratterizza. La speranza è fondata su una proiezione dell’umano ed è quanto mai giustificata, ma bisogna stare attenti ad alimentarla oltre misura perché, ancora una volta, si corre il rischio di conferire cibo alla mente/identità, ancora una volta non si risiede nel reale, ma lo si colora di ciò che non è, di ciò che non si sa e non si saprà mai.
Ancora una volta si alimenta la radice del dolore: mai va dimenticato che è la mente/identità che soffre e dunque ogni aspetto di questo suo processo va gestito con prudenza ed oculatezza, operazione non facile in questa situazione.
La fiducia è molto diversa dalla speranza e, purtroppo, troppo spesso, non riusciamo a coltivarla adeguatamente, perché il farlo richiede che noi si possa andare oltre il recitato della mente, scendendo fino alla radice del nostro essere.
La fiducia è la capacità di affidarsi al processo esistenziale che è in atto: un simbolo, con il suo portato di devastazione, si presenta e ci attraversa, ci scuote e ci conduce ad uno scacco totale, ma è un simbolo, non è l’irreparabile di cui nulla sappiamo.
È un simbolo quello che ci devasta, e allora dobbiamo chiedergli: “Di cosa mi parli?”
Il primo passo lungo la strada della fiducia è riconoscere la malattia come un simbolo e chiedergli cosa ci vuole insegnare: è entrare sul suo terreno, è accettare l’opportunità che ci presenta.
Chiedergli cosa ci vuole insegnare è aprirgli la porta, è non fuggire, non nascondersi, non farsi vittima. “Sono qui, dimmi dove debbo cambiare, cosa devo fare meglio, cosa debbo comprendere di me e della mia vita. Non scapperò, non mi nasconderò, non mi farò annientare dalla paura o dallo sconforto: mostrami la strada.”
Il secondo passo della fiducia è riconoscere la nostra impotenza: come il primo è stato accettare la possibilità di imparare e di comprendere, il secondo è l’apparente opposto.
“Sono qui, ti accolgo come mio insegnante, come opportunità preziosa quanto dolorosa, non fuggirò; nello stesso tempo non ho certezze, non coltivo illusioni, né mi deprimo e dal mio intimo sorge una parola, ultima e definitiva: sia fatta la Tua volontà!”
Non la volontà di un Dio astratto ed altro, la volontà del progetto esistenziale mio, di quello che sono e di quello che debbo divenire: se il progetto vuole vita, che vita sia; se la vita in questa forma va verso la fine, che il mio passaggio ad altro sia.
Perché ciascuno dei protagonisti di questa scena possa giungere a risiedere in quella fiducia, è necessario che le loro menti si plachino e che le loro identità ricordino che di nulla è padrone l’umano: se c’è pretesa, non sorge fiducia alcuna.
Se non c’è pretesa, allora si può aprire uno spazio d’esperienza sconfinato per tutti: “Portami dove è bene per me.”
Comprendete fratelli e sorelle la portata di questa affermazione?
“Portami dove è bene per me.”
A Te mi affido, a Te che prendi la forma della mia vita e divieni tempo e processo; a Te che sei mia coscienza e crei la mia carne e le mie esperienze; a Te che, quando taccio ed ascolto, sei quel quieto essere, quello stare certo, quella radice che non teme vento.
“Portami dove è bene per me!
Non dove voglio io, perché io non so cosa sia bene per me;
questo che mi accade è il segno che la vita mi offre
e se accade in questi termini vuol dire che a me è necessario così;
sono disposto a comprendere attraverso questa dura esperienza,
non ho la pretesa di chiedere, ma solo quella di essere disposto.
Insegnami a conoscermi, a divenire consapevole di me e a comprendere
attraverso le vie che ritieni più opportune per me,
Tu che sei me e mai faresti qualcosa che possa nuocermi.
A Te, Vita mia, mi affido ad ogni respiro e so che nulla ho da temere.”
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Mi inchino, riconoscente.
Grazie Roberto, non c’è davvero bisogno di aggiungere niente, ciò che scrivi è chiaro!
…ma tenere la mente neutrale a ciò che ci accade non è semplice… Ecco allora l’importanza del tornare a zero e del rimanere nelle sensazioni e nel momento che si sta vivendo…
Un pensiero al nostro fratello per la sfida del dolore che sta attraversando.
C’è commozione… verrebbe da dire che sulla teoria ci siamo e
se la vita riserverà questo, sarà la prova del nove di quanto interiorizzato e compreso. Grazie, davvero tanto!
Grazie Roberto
Grazie Roberto!
Mi attraversa una lieve commozione.
La malattia è stata per me una maestra perfetta per riconoscere la fiducia di cui parli.
“Portami dove è bene per me.”
Grazie Roberto. Non ho niente da aggiungere, se non che non vedo altra via, anche se comprendo le resistenze che la mente oppone e quindi la difficoltà di percorrerla fino in fondo.
Preziose indicazioni per vivere con consapevolezza il processo del dolore. Grazie.
Profonda essenza della Vita. Grazie. Inchino di vicinanza e di rispetto per chi è esposto direttamente a queste esperienze.
Grazie Roberto, davvero un grande aiuto e sollievo anche per chi come me di sofferenza ne vede molta…
Grazie Robi, queste riflessioni aiutano a ritrovare il giusto atteggiamento per meglio comprendere, per accogliere, e sono preziose per tutti perché con il dolore, prima o poi, tutti noi dobbiamo fare i conti.
Grazie.
Il post è un aiuto importante nel ricordare, in questi passaggi dolorosi, come la vita ha le sue strade per portare a compimento ciò per cui siamo venuti.
Esprimo tutta la mia vicinanza al fratello nel cammino e alla sua famiglia per questa durissima prova. Il post suggerisce la giusta prospettiva di visione, anche se comprendo quanto la mente possa ribellarsi.