Scrive un fratello nel cammino: “Soprattutto la mattina, quando inizia una nuova giornata e una nuova settimana, questa costrizione ad indossare panni che vorrei dismettere, è più forte..”
Certo, la mattina, quando la coscienza riprende pieno possesso dei suoi veicoli e reinizia il percorso delle possibilità e delle sfide, nell’identità si leva la protesta: “Ancora!”
Ancora qui a brigare, a faticare, a soffrire, ad occuparmi delle incombenze! Io che vorrei vivere di spirito, d’amore, di fratellanza universale!
E invece sono qui, chissà perché. Quanti di noi, immersi nella via interiore, non hanno visto questa protesta attraversare le loro menti?
Quella propensione all’infinitamente altro, al determinante che è sempre in un altrove se non è chiaramente vista e disconnessa, rappresenta il nostro modo per perderci, è il nostro oppio spirituale.
Fuggono dal presente gli scontenti ed i frustrati; fuggono tutti coloro che si ritengono vittime; e fuggono troppo spesso anche coloro che si dedicano alle cose dell’interiore.
Quante volte è stato ripetuto: non c’è passato, non c’è futuro, c’è solo presente? È stato assimilato, compreso? Dubito.
È duro avere come orizzonte solo il presente, è un masticare senza fine pane duro, almeno fino a quando non si è piegata la resistenza dell’identità.
Come si piega? Normalmente, dovendo arrendersi al fatto che la nostra vita ha perso ogni senso, la ricerca del nuovo non è più appagante e la coltivazione del vecchio non ci sostanzia più di niente: nel bel mezzo del deserto, l’identità deve piegarsi ad un’altra ipotesi, ad un’altra indagine del reale.
L’identità/mente è costretta a sofisticarsi, ad ammettere che forse esiste una possibilità di senso e di significato nel semplice, banale presente: alla luce di questa prospettiva accetta di piegarsi, di integrare la nuova possibilità. Non lo fa perché è saggia, ma perché non ha alternative e cerca disperatamente nutrimento.
Questo non va dimenticato, perché potrà introdurre successivamente delle distorsioni, quelle legate all’ottica del nutrimento.
Il pane duro può essere qualcosa di molto diverso? Certo, se lo sai vedere. E per vederlo cosa occorre? Che non lo consideri pane duro.
Quello che chiamavi pane duro, è solo un fatto. Né duro, né morbido: se non lo connoti, si svela; se lo connoti, è solo il frutto del tuo giudizio e dunque non ti darà un bel niente.
Attenzione, questa è la chiave: ciò che viene connotato non ti svelerà un bel niente. Perché?
Perché non sei interessato, è semplice: se una cosa l’hai giudicata, parametrata, archiviata nello scaffale del tuo interiore che tutto sa, cosa può mai dirti? Niente, credi di conoscerla già.
Ma se non la etichetti? Se la lasci pulsare, vibrare, essere e semplicemente la osservi e disconnetti senza fine tutto quello che la tua mente vi aggiunge, tutti i colori con cui la imbratta, tutte le pretese che accampa, allora cosa rimane? Un fatto che è, che vibra, che testimonia se stesso e la possibilità di accoglierlo, di osservarlo e, se ne sei capace, di contemplarlo.
Se non ti sei arreso alla tua pretesa di sapere, di conoscere, di aver già visto, già sentito, già capito, allora quel fatto dischiude il suo segreto: di qualunque natura esso sia, se non viene nascosto dalla nostra pretesa, mostra il dono del senso, dell’essere, dell’accadere, del ciò-che-è.
Tutto ciò che noi, indagatori dell’interiore, abbiamo cercato in libri, maestri, vie, pratiche lo troviamo rivelato da quel semplice, banale, anonimo fatto.
Spero abbiate compreso la portata di queste affermazioni: non conta la natura del fatto, conta che su di esso non venga aggiunto niente.
Allora, di fronte a quell’anonimo fatto, sorge la meraviglia del vivere: meraviglia non significa che ci emozioneremo tutti, significa che sorgerà in noi uno stupore per qualcosa che è sempre stato lì e mai lo abbiamo veduto. Quando questo stupore si sarà ripetuto mille volte, comprenderete che la meraviglia del vivere non è quello che le menti pensano, è una gioia silente, muta, delicata, sottintesa in ogni esperienza, in ogni relazione con ogni fatto.
Tutto questo per non aver aggiunto nulla sul reale, per essere divenuti dei semplici osservatori che, privati di ogni pretesa ed attributo, completamente arresi a quel che viene, vuoti come un secchio vuoto, vibrano all’unisono con l’essere dei fatti che cadono nel secchio e l’attimo dopo scompaiono.
Non c’è vita nel presente che non implichi lo scomparire del soggetto con le sue pretese e la permanenza dei fatti.
Se sei sul fatto che è accaduto un attimo fa, non puoi vivere il fatto di adesso: ecco la resa senza fine, la disconnessione che non conosce sosta, il tacere rinnovato di fronte ad ogni evento lasciando alla vita la possibilità di impattarci e rispondendo, e poi ancora tacendo e rispondendo di nuovo.
I fatti cadono nel secchio vuoto, il loro impatto lo fa risuonare, lo percuote, lo scuote: lo fa rispondere.
Si può cercare di vivere il presente ghermendolo, o si può accoglierlo senza fine come un secchio vuoto, arrendendosi al suo impatto.
Il mondo è arraffone, tende a ghermire, a possedere, ad ingozzarsi, bulimico di sé: noi ci svuotiamo, ascoltiamo, accogliamo e, quando è il nostro tempo, facciamo la nostra mossa.
Quando è tempo, non prima, non a priori, non dopo: l’ascolto, l’accoglienza, il non giudizio ci mettono nella condizione ottimale per compiere il nostro gesto vitale, per marcare la nostra presenza, se di questo abbiamo necessità, se questa è richiesta.
Il nostro esserci è un rispondere alla chiamata della vita che precipita i fatti nel secchio vuoto: noi preserviamo il secchio vuoto e da esso sorgerà la vita che definiamo come nostra.
Vivere il presente non è solo un dato di consapevolezza, è una disposizione di fondo che vede tramontare il protagonista e lascia sorgere l’artefice, colui che vigile osserva, accoglie, compie il gesto che gli spetta, non di più, non di meno.
La persona che vive in questo modo non va cercando nel presente ciò che la nutre, né ciò che le piace: essa è capace di stare su ogni fatto e di essere attraversata dalla sostanza esistenziale di ogni relazione con ogni fatto.
L’interminabile peregrinare di fatto in fatto alla ricerca del nutrimento è finito, i fatti, ognuno nella sua semplicità e banalità, bastano e il senso che conferiscono abbonda la capacità stessa di essere accolto.
Ho riletto il post a distanza di giorni…Mi colpisce la frase “non conta la natura del fatto, conta che su di esso non venga aggiunto niente”
Lasciare che il fatto pulsi, vibri… Quindi osservare e disconnettere senza fine ciò che la mente aggiunge…
Questa “abilità” si allena e credo che la sua riuscita dipenda anche da quanto il “fatto” in questione ci coinvolge.
Alla AdM del 13 gennaio ho testimoniato la mia esperienza di “raggiunta” pace nella relazione con mio padre: le sue azioni e le sue parole non impattavano più come prima, erano semplici fatti senza aggiunte. Praticavo la disconnessione e mi sembrava di essere ormai fuori dalla sofferenza e dai contrasti con lui.
Devo invece dire che da una decina di giorni sono di nuovo “debole” di fronte alla sua rabbia, alle sue lamentele e alla sua violenza verbale.
Quei fatti, che ormai ben conosco, non sono semplicemente fatti, mi sento colpita da essi e disconnettere mi è difficile.
Mi arrabbio, il mio stomaco si sta ribellando ed ho deciso di frequentare di meno mio padre: è una fuga?
Mi chiedo se non ho compreso il processo di conoscenza-consapevolezza- comprensione…
La reazione che ti ha condotto ad allontanarti un poco, è fisiologica: essendo tornata l’identificazione, allontanarsi è un modo di mitigarne gli effetti.
Tu hai sperimentato la possibilità di vivere i fatti per quel che sono: rammentalo, disconnetti, stai con misura nell’officina di tuo padre.
Pian piano le cose cambieranno, non c’è dubbio, è già successo..
Da leggere tutti i giorni…
Meraviglioso!
Avevo già letto il post. A distanza di giorni è come se lo leggessi per la prima volta. Non mi ero resa conto veramente della sua importanza. Da rileggere ancora, meditare, contemplare.
Grazie.
Mi pareva di aver già commentato questo post, probabilmente non l ho inviato…
“…Fuggono dal presente gli scontenti ed i frustrati…” è così e queste parole risuonano tantissimo perché anche in me l’ingombro mentale è spesso invadente ma il disporsi secchio vuoto è necessario, vitale. Grazie!
Parole che mi arrivano e che mi sembra di comprendere…
Mi ha colpito questo: “… Quella propensione all’infinitamente altro, al determinante che è sempre in un altrove se non è chiaramente vista e disconnessa, rappresenta il nostro modo per perderci, è il nostro oppio spirituale.
Fuggono dal presente gli scontenti ed i frustrati; fuggono tutti coloro che si ritengono vittime; e fuggono troppo spesso anche coloro che si dedicano alle cose dell’interiore….”
Mi sembra importante il fatto che la “via” non è lontana da ciò che semplicemente c’è, è un tutt’uno con il fatto che accade, non è altrove….è un tutt’uno con la realtà banale o noiosa…o bella o scomoda…divenire e stare…
Vivere il presente , accogliere Ciò che E’. oltre alla leggerezza emerge anche soluzione ai problemi
“Se non ti sei arreso alla tua pretesa di sapere, di conoscere, di aver già visto, già sentito, già capito, allora quel fatto dischiude il suo segreto: di qualunque natura esso sia, se non viene nascosto dalla nostra pretesa, mostra il dono del senso, dell’essere, dell’accadere, del ciò-che-è.”
Grazie!
Grazie
Tempo fa avevo, attraverso un commento, dichiarato di essermi accorta che la vita non era piu faticosa come invece l’avevo definita per lungo tempo….questo post ne e’ la spiegazione.
Grazie
Come dissi già , una terapia terribile come la chemioterapia diventa un presidio augurabile se poco prima hai rischiato di non arrivare a praticarla . La mente cataloga e giudica secondo i suoi metri e i suoi interessi . Se si lascia da parte il giudizio anche questa terapia è quel che è …
Grazie Roberto… Dovrò ruminare bene e tanto questi concetti che ancora non sono compresi a fondo…
“Se una cosa l’hai giudicata è messa nello scaffale non può più darti niente perché credi di conoscerla già”.
Come è veloce la mente a catalogare subito… occorre essere sempre attenti affinché essa non si affermi subito.
Grazie Roberto.
Ancora lungo il cammino per me per comprendere l’essenza che risiede nella nudità dei fatti. Ancora troppo ingombrante il corpo mentale. Eppure piccoli squarci si aprono.
Pane duro per la mia mente che con molta fatica abbandona il giudizio…e con altrettanta fatica riesce a concepire il tramonto del protagonista..ma un battito di ciglia…un’espirazione profonda…e il secchio e’ vuoto!
vivere consapevolmente. Grazie
Grazie! Come sempre da ruminare…
“se una cosa l’hai giudicata, parametrata, archiviata nello scaffale del tuo interiore che tutto sa, cosa può mai dirti? Niente, credi di conoscerla già”
Già… sembra proprio che ciò che accade vada proprio nel senso di abbattere tutti i pregiudizi, le credenze. Ogni volta che definisco qualcosa la prova arriva a demolirla per indurmi al piegarmi. Esempio lampante: mi si presenta il caso di mio nipote che prende in gestione un’area food di una sala giochi e mi chiede aiuto…..io e il gioco siamo sempre stati poco amici, ho avuto periodi che l’ho odiato, ho combattuto in famiglia con questo vizio…..e non basta! l’area food sforna per la maggior parte hamburgher!!! Io che non mangio carne mi ritroverò a doverla maneggiare per somministrarla ai clienti! Questi i primi pensieri….poi la resa….se la scena mi si presenta è per me, c’è qualcosa da apprendere! Probabilmente proprio l’andare oltre ciò che pensi acquisito…
Il giudizio sul fatto è un automatismo. Il lavoro di disconnessione è senza fine. Mano a mano che si procede i tempi si accorciano, forse un giorno potrò stare nel deserto senza nulla aggiungere
Mi risuona molto la parola “giudizio”, che forse si può considerare un’arma delle coscienze. Tal volta cado nel tranello e la uso spesso contro di me. Ho comunque imparato a disarmarmi, con pazienza e quel famoso scalino su cui inciampavo è diventato meno ripido, meno spigoloso. Grazie.
Di cruciale importanza è l’analisi interiore, imparare a riconoscere nitidamente quell’attimo in cui la mente si inserisce per apportare la sua connotazione sul fatto. Come in un incendio del bosco prima si interviene e più semplice sarà lo spegnimento, in questo caso prima si disconnette il giudizio e più agevole sarà il riallineamento
“Non conta la natura del fatto”.
Grazie
il che non implica spegnimento o atrofizzazione delle emozioni, dei pensieri e del corpo fisico che sono gli elementi imprescindibili con cui possiamo sperimentare.
Infatti, Samuele, significa viverli consapevolmente e quindi, sicuramente, con più vividezza..
Grazie!